EDITORIALE
Non ci piace finire nei programmi delle tv nazionali con un servizio sulle «bande che terrorizzano Parma», non ci piace essere vittime di baby gang, o protagonisti di storie di (stra)ordinaria microcriminalità. A noi parmigiani piace vivere in una città tranquilla e civile, come Parma è da sempre. Chiariamolo subito: non vogliamo sentirci dire che «Parma non è Scampia, né Palermo». Lo sappiamo. E non vogliamo correre il rischio nemmeno di assomigliare a quelle realtà storicamente ostaggio della malavita e della violenza. Siamo abituati bene e nessuno ha intenzione di tollerare gli episodi di cui abbiamo troppo spesso dato conto nelle pagine di cronaca nelle ultime settimane e di cui ha parlato l’altra sera “Fuori dal coro” su «Rete4», mandando in onda un servizio per molti versi agghiacciante.
L’errore da non commettere è chiudere gli occhi. O illudersi che bastino le forze dell’ordine per arginare, o addirittura stroncare, il fenomeno delle baby gang.
Non basterebbero cento pattuglie dei carabinieri e cento della polizia, dei vigili urbani e della Guardia di finanza. È ovvio che pantere e gazzelle con lampeggianti accesi sono un ottimo deterrente per giovani sbandati che abbiamo voglia di fare danni: ma non ce ne sono che poche a disposizione, da spalmare sui turni di lavoro che coprono le ventiquattro ore. È noto che, a causa dell’inadeguatezza delle leggi, gli sforzi delle forze dell’ordine sono spesso vanificati (anzi, umiliati): i delinquenti, anche se presi in flagranza, se la cavano quasi sempre con una denuncia o, nei rari casi in cui si arrivi a un processo e a una condanna, non fanno quasi mai neanche un giorno di detenzione.
Un aiuto concreto, come l’esperienza del passato insegna, sarebbe rappresentato dall’intervento dell’Esercito: il presidio di luoghi critici con militari in divisa ha dato buoni risultati e sarebbe prezioso anche oggi, specialmente in questi giorni che ci accompagnano al Natale.
Ma, soprattutto, serve un gioco di squadra, per affiancare le forze dell’ordine e sostenere il loro lavoro. Reprimere e basta non è possibile e non è neanche la soluzione. Occorre analizzare il fenomeno, capirne l’origine e le cause e agire su quelle. Si parla di disagio giovanile, di immigrazione incontrollata e conseguente difficoltà di integrazione. È un dato di fatto – non è razzismo – osservare che, nella stragrande maggioranza dei casi, i bulli delle bande giovanili sono ragazzi extracomunitari fuori controllo. Che non vanno a scuola e non lavorano, che si ubriacano in compagnia e che, nel branco, aumentano a dismisura i propri istinti violenti. Su questo bisogna agire, tutti insieme: istituzioni, enti, servizi sociali, scuole devono remare nella stessa direzione. L’integrazione è possibile: ci sono tanti esempi e buone pratiche in città a dimostrarlo.
Non c’è altra strada. La “legge del manganello”, che tanti invocano (e per certi versi vanno capiti), non è praticabile, non solo perché non è legale. Solo con un impegno corale c’è la speranza di risolvere il problema. È quello che la città chiede: non se ne può più di avere paura (donne e ragazze soprattutto, ma non solo) a passare per le zone calde appena scende la sera, di vedere i commercianti disperati per la situazione in alcune vie nel cuore della città, di sentire di maxi risse, di rapine, di coltelli che spuntano, di bottiglie di vetro lanciate in Ghiaia dal Lungoparma. I parmigiani non lo meritano. E non hanno alcuna intenzione di tollerarlo.
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