Editoriale
Il Pil italiano, ormai è assodato, si è messo a galoppare. Addirittura, per dirla con Ursula con der Leyen, corriamo «come non mai». Il prestigio di Mario Draghi è riconosciuto in tutto il globo e nonostante varianti Omicron, scioperi identitari fuori dal tempo e le schegge impazzite del costo energetico e delle commodities, teniamo il timone bello dritto. Quello che però nemmeno l'aura di Draghi basta da sola a garantire in una compagine governativa ecumenicamente raccogliticcia è una politica industriale di ampio respiro. Meglio, una visione.
Prendiamo il decreto in via di definizione in queste ore (quindi al netto degli aggiustamenti last minute) che dovrebbe impedire alle aziende di chiudere un’attività per poi delocalizzare.
Riguarda società con almeno 250 dipendenti che intendano procedere ad almeno 50 licenziamenti. Per farla breve: oltre a comunicare 90 giorni prima l'intenzione a sindacati, Regioni, ministero e Anpal, l'impresa deve in sostanza trovare un'alternativa per garantire la continuità operativa preparando anche un piano della durata di 12 mesi. Altrimenti non se ne fa nulla.
Due le macro considerazioni. Uno: di tutele (sacrosante) ne sono già state messe in piedi diverse, a partire dal decreto Dignità che fa decadere gli aiuti ricevuti (da rendere con gli interessi) se si delocalizza entro cinque anni e - nel caso di investimenti in settori strategici - dal rafforzamento della golden power. Secondo aspetto, ancor più centrale: se si lancia al mercato un messaggio di questo genere difficilmente si attireranno quegli investimenti diretti esteri che sono un noto tallone d'Achille italiano, con i dati pre Covid che li segnavano in picchiata nel 2019.
Ora le obiezioni: un'azienda non chiude e licenzia a cuor leggero, non è nel suo interesse perché la cessazione di un’attività è sempre una sconfitta, economica e di immagine; e l'alternativa - continuare in perdita - rischia di trasformarsi in una zavorra che mette in pericolo altre attività del gruppo. Quindi quando questo avviene è perché tutte le strade possibili, dalle consulenze fino ai possibili acquirenti (il famigerato “piano” di 12 mesi a cui fa riferimento il decreto) sono già state percorse e scartate. Lo Stato farebbe meglio a intervenire a monte nella soluzione dei nodi del lavoro favorendo l'incontro fra domanda e offerta con i profili adatti alle imprese («I dati Istat confermano che vogliamo assumere» spiegava nei giorni scorsi Carlo Bonomi) e spingendo sugli investimenti in ricerca e sviluppo, anziché intervenire a posteriori con misure protezionistiche che limitano il mercato e il raggio d'azione dell'impresa utilizzando la stessa logica che ha partorito il reddito di cittadinanza. Non è impedendo la riduzione di personale - come ha dimostrato la sfortunata Loi Florange, praticamente senza effetti in Francia - che si risolvono le situazioni più intricate. Alla vigilia, in particolare, della rivoluzione elettrica nella filiera dell'automotive, spina dorsale della manifattura italiana (considerando anche indotto e infrastrutture), occorre capacità di visione per creare le condizioni ideali verso la transizione, favorire la riconversione industriale, attirare investimenti da altri Paesi rendendo ragionevoli oneri amministrativi e tasse e certi i tempi della giustizia. Per ora si sono sentiti solo annunci drastici sullo stop ai motori endotermici nel 2035, ma quello dovrebbe semmai essere il traguardo, non il punto di partenza, al termine di una pianificazione industriale che sappia far marciare davvero in sintonia pubblico e privato.
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