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EDITORIALE

Obbligare la Russia a trattare

Obbligare la Russia a trattare

di Domenico Cacopardo

24 Marzo 2022, 14:12

Di fronte alle stragi e alle deportazioni in corso in Ucraina, nel mezzo di una guerra in stallo, nella quale l’aggressore è incapace di concludere le «operazioni» (e minaccia, dopo le bombe thermo-bariche e a grappolo, bombe al fosforo e bombe nucleari), noi, spettatori sino al 23 febbraio inconsapevoli e increduli, possiamo chiedere un orientamento  all’unico criterio disponibile: la moralità. Non c’è infatti alternativa a essa, giacché quest’unica parola contiene in sé la verità, la compassione, il dolore, lo sceverare tra giustizia e ingiustizia.

Perciò, Valodomir Zelensky, parlando di fronte al Parlamento italiano, in versione ridotta vista l’assenza dissenziente di 1/3 dei suoi componenti (uno scandalo, non una manifestazione di libertà di giudizio, giacché i 116 bambini uccisi dall’Armata russa pretendono solidarietà, commozione, profonda, inestinguibile pena. Senza se e senza ma) ha adottato la giusta via, riservata a noi italiani, della richiesta di aiuto e soccorso umanitario.
È evidente che i suoi consiglieri gli hanno spiegato l’«italian style» in materia di aggressione, che la sua vice, l’intrepida Iryna Vereshchuk, gli ha raccontato l’incredibile trattamento riservatole da La7, che il suo ambasciatore gli ha segnalato i cedimenti della politica italiana nei confronti del despota russo. Quindi, niente richiesta di armi, niente proclami patriottici, ma un ricorso alla mozione dell’umanità, purtroppo rovinata dalla pessima traduzione simultanea, incapace di rappresentare il pathos delle parole di Zelensky.


Ed è altrettanto evidente che Mario Draghi, sempre più a suo agio nelle vesti di statista di rango internazionale, ha subito dopo rivendicato un ruolo italiano, anche nel sostegno militare, anche nell’adesione ucraina all’Unione europea, proprio per ribadire la nostra partecipazione al «campo occidentale», all’Ue e al Patto atlantico.
Di fondo, rimane la nostra ininfluenza all’interno dei complessi problemi di geopolitica, tra i quali ce n’è uno per noi vitale, più di tutti gli altri: l’appropriazione russa e turca della Libia, territorio un tempo di specifica incontestata - quasi totale - influenza italiana, con relativo controllo delle risorse petrolifere. Una questione che già oggi è all’ordine del giorno anche se nessuno ne parla e anche se le dissennate decisioni in materia di energia nucleare ci hanno consegnato ai ricatti russi.
La novità del giorno è l’annuncio che la Russia non accetterà più il pagamento di gas e di petrolio in dollari o in euro. La Russia, perciò, regolerà le sue transazioni internazionali in rubli o «yuan», la moneta cinese: non un favore alla Cina, ma un’altra decisione dirompente proprio per Pechino che non può né intende rinunciare ai rapporti commerciali con gli Usa.


In ogni caso, allo stato delle cose nel 30° giorno di ostilità, mi rifaccio a Gideon Rachman, già direttore dell’Economist ora al Financial Times: «So those are the three options: a prolonged war (60%); a peace settlement (30%); or a coup in Russia (10%). Expect the first; work for the second and hope for the third». Tali sono le tre opzioni: una guerra prolungata; un accordo di pace; un colpo di stato in Russia. Aspettiamo la prima, lavoriamo per la seconda, speriamo per la terza. Si lavora per la seconda, senza furbizie né riserve mentali, rendendo impossibile lo sterminio degli ucraini e la loro deportazione.
Il peggio del regime zarista e di quello stalinista è tornato d’attualità. Morale e logica ci impongono di costringerlo a trattare. Il resto è illusione. 

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