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EDITORIALE

La guerra e l'ambiguità dei colossi del web

La guerra e l'ambiguità dei colossi  del web

di Ruben Razzante

09 Aprile 2022, 12:41

L'attenzione del legislatore europeo verso la disciplina della Rete può dirsi matura e crescente. Negli ultimi anni sono state emanate normative in materia di comunicazioni elettroniche, commercio online, copyright, privacy volte a tutelare efficacemente i diritti degli utenti nel web e a disciplinare in maniera sempre più vincolante le attività dei cosiddetti colossi, che trattano una quantità infinita di dati e hanno in mano le chiavi della nostra identità digitale.
I progressi sono innegabili. Il quadro giuridico, inizialmente frammentato, sfilacciato e in molti aspetti indeterminato e monco, sembra consolidarsi, ma rimangono incognite applicative e equivoci interpretativi con riferimento al ruolo e alle responsabilità che Google e gli altri giganti della Rete devono assumere  per accreditarsi con trasparenza come fedeli alleati degli utenti. Se ne è parlato durante il Covid, se ne torna a parlare oggi, in piena guerra russo-ucraina, perché le piattaforme rimangono al centro delle strategie belliche in virtù del loro enorme potere di diffusione delle informazioni. Nella democrazia della Rete i megafoni del pluralismo informativo e delle opinioni sono le piattaforme. I flussi di notizie che transitano da quei nodi virtuali orientano le valutazioni individuali e collettive e ispirano le condotte delle parti coinvolte e le decisioni degli Stati.


Durante la prima e la seconda guerra mondiale e anche in occasione dei diversi conflitti che dolorosamente hanno macchiato e continuano a macchiare la storia dei popoli e delle nazioni, una delle regolarità più evidenti e facilmente riscontrabili è stata ed è la prevedibile attitudine dei Paesi in guerra a mettere le mani sull’informazione per irreggimentarla e renderla un’arma in più sul terreno dello scontro bellico: uno strumento di propaganda in grado di giustificare le proprie condotte agli occhi della popolazione nazionale e della comunità internazionale.
Oggi i governi, a maggior ragione quelli di impronta illiberale e autoritaria, puntano ad addomesticare i media tradizionali, ma hanno altresì la necessità di imbavagliare le piattaforme impedendone il libero accesso ai propri cittadini, che altrimenti potrebbero attingervi notizie non allineate e dunque smascherare inganni, raggiri e verità calate dall’alto.
Ma le piattaforme non producono contenuti, li indicizzano soltanto e in base a un imperscrutabile algoritmo, che è una miscela di parametri e criteri di natura essenzialmente commerciale ed anche, in alcuni casi, ideologica.
Per questa ragione occorre chiedersi se sia giusto che aziende private globali, presenti in tutti i continenti, abbiano la possibilità di operare una selezione dei contenuti prodotti e caricati dagli utenti o se debbano invece essere authority super partes a vigilare su quei contenuti, visto che essi incidono su diritti fondamentali quali la libertà d’espressione e il diritto dei cittadini ad essere informati correttamente e in maniera pluralista.


Che mestiere fa Google, verrebbe da chiedersi? Tutti gli utenti della Rete apprezzano il servizio Google News, che rappresenta il contenitore di più facile e immediata consultazione per cercare informazioni su una persona appena conosciuta o su un evento di cronaca. Il colosso di Mountain View ha messo in piedi un aggregatore di notizie che certamente soddisfa con efficacia un bisogno informativo.
Molti di quei link consentono a testate minori di farsi conoscere, proprio grazie alla vetrina online offerta dall’«amplificatore» Google, e assicurano a quest’ultimo introiti più o meno cospicui. Tuttavia, si verifica una commistione improvvida tra il legittimo business di una multinazionale e la tutela di alcuni diritti fondamentali, dei quali dovrebbero occuparsi in maniera neutrale e imparziale soggetti pubblici.
Se la monetizzazione dei contenuti decisa da un’azienda privata finisce per compromettere il pluralismo delle opinioni e delle idee, ad uscirne sconfitta è la stessa democrazia della Rete.
Ed è quello che in qualche modo sta accadendo, limitatamente ad alcuni singoli ma indicativi episodi, durante queste ore concitate di escalation bellica.
La notifica che il colosso di Mountain View sta diffondendo in materia di linee guida sui contenuti che trattano del conflitto ucraino è sicuramente un ibrido dal punto di vista del bilanciamento tra libertà private e diritti fondamentali. «A causa della guerra in Ucraina, sospenderemo la monetizzazione dei contenuti che sfruttano, ignorano o giustificano la guerra», inizia il messaggio agli editori, che è firmato «The Google Ad Manager Team». E ancora: «Questa pausa include, ma senza limitarsi a questo, affermazioni che accusano le vittime di essere responsabili della loro tragedia o altri casi simili che colpevolizzano le vittime, come le affermazioni di chi sostiene che l’Ucraina sta commettendo un genocidio o che attacca deliberatamente i suoi stessi cittadini».


La giustificazione di Google è che, come intermediario per la pubblicità online, punta a evitare che gli annunci dei suoi clienti appaiano accanto a contenuti ritenuti scioccanti o quantomeno impropri per la maggior parte dell’opinione pubblica. Tuttavia, il suo comportamento è tipico di chi si occupa di contenuti.
Da una parte, quindi, Google rifiuta la qualifica di editore, alla quale si potrebbero agevolmente ricondurre criteri di responsabilità giuridica sulla produzione, selezione e distribuzione di contenuti; dall’altra entra spesso a gamba tesa nella valorizzazione o marginalizzazione di alcune notizie e opinioni, incidendo inevitabilmente sul pluralismo dell’informazione e vanificando di fatto quella neutralità che è tipica di un intermediario. Dunque, le azioni di demonetizzazione non hanno solo risvolti economici legati all’advertising ma, incidendo sulla copertura mediatica di un evento di interesse pubblico, producono effetti censori.
E questo rischia di intossicare l’ambiente virtuale e di calpestare gli elementari principi della democrazia della Rete. I tempi sono maturi per una definizione equilibrata dei termini della questione.

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