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Editoriale

Afghanistan: la lezione straordinaria delle donne

Afghanistan: la lezione straordinaria delle donne

18 Agosto 2022, 14:04

Quante ferite si è lasciato dietro l’Afghanistan… Ma la
ferita più grande è quella che sta ancora dilaniando quel Paese grandioso in tutto. Nella maestà abbagliante delle sue montagne e dei suoi deserti, come nella ferocia dei signori della guerra che l’hanno avuto in pugno per secoli. Nel cuore intrepido dei mujaheddin del leggendario comandante Massud, ucciso a tradimento alla vigilia dell’11 settembre da una cellula di Al Qaida con il beneplacito dei Talebani, come nel coraggio ancora più sconfinato delle sue donne mille volte umiliate e oppresse, eppure mai domate e vinte. Neppure ora che non è rimasto più nessuno a difenderle.
Scusate tanto se torno a parlare di Afghanistan. La terra in cui, come italiano, ho lasciato 53 nostri indimenticabili caduti. E che, da testimone diretto della nostra ventennale missione a Kabul, mi ha confermato che mai come ora il declino dell’Occidente è stato a un passo dal superare il punto di non ritorno. Quante volte, infatti, ci (e vi) hanno raccontato che eravamo là a fare una guerra? Che per gli afghani non eravamo altro che degli invasori, per di più servi più o meno sciocchi degli americani? Guarda caso, lo stesso ciarpame ideologico sparso oggi a piene mani (...) dagli amici di ogni ordine e grado di Putin che da mesi strepitano contro l’invio di armi alla resistenza ucraina e sempre a detta dei quali l’unico modo per ritornare a vivere tranquilli sarebbe di abbandonare al suo atroce destino quel lembo di Europa. La prova generale l’abbiamo già fatta dodici mesi fa a Kabul e proprio da quella nostra ignominiosa ritirata Mosca e Pechino hanno tratto l’assicurazione definitiva che i tempi erano maturi per l’Ucraina e (presto) per Taiwan.


Intanto, però, l’Afghanistan è perso. E con esso i sogni e le speranze di milioni di donne tornate invisibili. Ma forse sarebbe meglio dire morte - come Nigara, uccisa dai Talebani in casa sua di fronte al marito e ai figli solo perché era diventata ufficiale di polizia - e mai nate, come la figlia che la stessa Nigara portava in grembo al momento del suo martirio. Così come morte e mai nate vanno considerate le ragazzine afghane dagli undici anni in su a cui è tassativamente vietato di andare a scuola. O le giornaliste alle quali un decreto del rinato Emirato Islamico dell’Afghanistan ha vietato di mostrarsi in tv con il volto scoperto. In linea perfetta, per altro, con l’obbligo esteso a tutte le donne di non uscire di casa se non indossando il burqa e con la precisazione davvero luciferina che delle eventuali violazioni saranno il padre, il marito o il parente maschio più prossimo a risponderne.
E dunque, vedere e sentire oggi stuoli di commentatori e di politici stracciarsi le vesti indignati di fronte all’abisso di terrore e di ingiustizia in cui è precipitato nuovamente l’intero Afghanistan, suscita solo pena e rabbia. Lo dico avendo ancora bene in mente le tante volte in cui ho ascoltato di persona le giovani studentesse dell'Università di Herat, oppure le attiviste per i diritti umani di Kabul, ripetere terrorizzate all’infinito: «Non andatevene. Se voi occidentali ve ne andate, per noi sarà la fine!». E così è stato. Per il trionfo di un’armata di bruti di nuovo liberi di uscire dalle loro caverne e di ricacciare indietro nel Medio Evo un Paese dove, fino a un anno fa, le scuole e gli ospedali avevano ripreso a funzionare, milioni di profughi avevano fatto ritorno alle proprie case e, pur fra mille ritardi e contraddizioni, la gente ci aveva preso perfino gusto a tuffare il dito nell’inchiostro per eleggere i propri rappresentanti. Mentre oggi in Afghanistan il 97% della popolazione è alla fame, l’economia è tornata a dipendere esclusivamente dalla coltivazione del papavero da oppio (aumentata dell’8% nel 2021), l’unica legge applicata è la sharia e solo nell’ultimo anno ben 700.000 individui sono scappati per sfuggire alla violenza e alla povertà. Un quadro allucinante, ma che consente a quella masnada di diavoli di continuare a ricattarci con la richiesta di altri aiuti che noi, più per falsa coscienza che per genuino spirito umanitario, in parte gli diamo e continueremo a dargli. Sapendo, però, che la situazione laggiù è destinata a peggiorare anche a causa delle divisioni interne allo stesso regime talebano e che hanno giocato un ruolo non secondario nella recente eliminazione del leader di Al Qaida, Al Zawahiri, ucciso da un raid Usa nel centro della capitale Kabul.


Eppure, non tutto è morto in Afghanistan. Ce lo hanno ricordato le donne che, proprio in occasione del primo anniversario del ritorno dei Talebani al potere, sono scese in piazza a Kabul chiedendo a gran voce «Pane, lavoro e libertà». Tutti le abbiamo viste nei vari tg sfidare a viso scoperto i loro aguzzini prima di essere disperse a bastonate e a raffiche di Kalashnikov. A dimostrazione che, come dichiarato poi dalla loro leader Munisa Mubazir, «i Talebani non hanno paura della Nato e dell’America. Ma delle donne sì». Soprattutto di quelle istruite, perché - ha aggiunto Munisa - «quando una donna è istruita, ci sarà una famiglia istruita. E quando una famiglia è istruita, ci sarà una nazione istruita. E un Paese istruito non si nutrirà mai della propaganda dei terroristi».
Che straordinaria lezione di civiltà e di coraggio. Ma, al tempo stesso, che colossale schiaffo inferto alle nostre intorpidite e sempre più vacillanti coscienze!

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