Editoriale
Due decenni a dir poco turbolenti potrebbero autorizzarci a porre una domanda sicuramente scomoda e probabilmente esagerata: ci troviamo davvero alla fine di un mondo? Fine intesa come implosione del sistema e dei valori su cui l’Occidente ha prosperato negli ultimi tre secoli, così bene incarnati dall’immagine di Elisabetta II che raccolse le ceneri del primo impero moderno per lasciarlo ora in un contesto di incertezze sovraniste.
Vediamo: nel breve volgere di questo inizio millennio gli shock violenti al sistema - economici, sociali, politici - sono stati almeno sei: nel 2001 l’attacco alle Twin Towers con la lunga coda dello jihadismo e, contemporaneamente, lo scoppio della bolla della new economy; nel 2007 il caos epocale scatenato dai mutui subprime, scintilla della grande recessione innescata dalla proliferazione di prestiti ad alto rischio; tre anni dopo il dramma del debito sovrano (che finì per toccarci molto da vicino nel 2011); quindi la pandemia di Covid, che ha messo in luce le fragilità di un’economia globale e interconnessa; infine la folle guerra in Ucraina, la prima a ferire nel vivo interessi, sensibilità e relazioni occidentali, ben più del conflitto nella ex Jugoslavia, vicino sì geograficamente (almeno per noi europei) ma sostanzialmente circoscritto.
Aggiungiamo la crisi delle crisi, ovvero quella climatica, certamente più lunga e strisciante ma ormai pronta a riscuotere i suoi crediti. E ancora: focolai di tensione ribollono con sempre maggior inistenza minacciando equilibri consolidati, da Erdogan allo stesso Putin, per non parlare di Iran o Corea del Nord; e prima ancora anche il Trumpismo, culminato nell’attacco a Capitol Hill, e perfino la Brexit, che finora ha prodotto 4 premier in 6 anni (contro 16 in 70 anni sotto Elisabetta II), erano, anzi sono, segnali di insofferenza che ci riportano a un lugubre paragone con le tensioni che attraversavano l’Europa alla vigilia dell’ora più buia.
Alla politica italiana impegnata nella inedita corsa elettorale di fine estate non possiamo certo illuderci di chiedere risposte a problemi di tale portata. Figuriamoci: dopo aver incassato il Pnrr e impallinato allegramente Mario Draghi lavandosi la coscienza con un bell’applauso alla Camera, i partiti - chi più chi meno - sono ora ben felici di lasciarlo lontano dai riflettori ad affrontare la delicatissima crisi energetica.
Sarebbe lecito, però, assistere almeno a un dibattito sulle idee, sulle proposte reali per affrontare i tanti, troppi problemi sul tavolo. Invece leader e candidati sembrano molto presi da questioni imprescindibili come la Bicamerale (raffinato quanto inutile esercizio di sofisma politico fin dai tempi di d’Alema), oppure lo spostamento del Viminale da Roma a Milano o il futuro prossimo del Quirinale. Per non parlare della corsa ai social, forse il segnale più netto e inquietante di decadenza, l’abdicazione dell’ars politica all’effimero. Per carità: le campagne elettorali non sono mai state edificanti, ma il livello di oggi pare più basso del solito.
Nonostante tutto, però, c’è una parte del Paese che miracolosamente continua a fare la sua parte: il cosiddetto «Made in Italy», ovvero le imprese. A dispetto dello scenario infausto, nel primo semestre del 2022 il nostro export è cresciuto del 22,4% (lo scorso anno abbiamo esportato beni per 516 miliardi di euro) compensando peraltro in modo straordinario il brusco calo (-17,6%) verso il mercato russo. Eppure la sensazione è che gli appelli quotidiani del mondo imprenditoriale - tutto, dal commercio all’industria, dall’artigianato ai servizi - di fronte al problema più urgente alle porte dell’inverno, quello energetico, scivolino addosso con disinvoltura a partiti e candidati, che al massimo li rilanciano. Tanto - pare l’intendimento sottinteso - ci pensano Draghi e Cingolani. Il problema è che il 25 settembre è molto vicino. E allora toccherà rimboccarsi davvero le maniche.
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