Editoriale
Scusate, ci eravamo sbagliati. Torna tutto come prima. Il governo deve fare retromarcia sulla misura «anti Pos», quella che ha animato le ultime settimane non solo del dibattito politico ma anche delle chiacchiere da bar. Parliamo ovviamente della misura che avrebbe abolito le sanzioni a chi si fosse rifiutato di accettare pagamenti elettronici sotto i 60 euro e che domenica sera il governo si è visto costretto a ritirare.
Si era prima parlato di abbassare la soglia a 30 euro ma alla fine l’esecutivo ha dovuto togliere la norma dalla manovra non perché travolto dalle accuse dell’opposizione e di una larga fetta del Paese di favorire l’evasione fiscale, ma perché ai rilievi, già pesanti, mossi dalla Corte dei Conti e dalla Banca d’Italia si è aggiunto quello della Commissione europea: l'allergia ai pagamenti digitali è in palese contrasto con gli obiettivi contenuti nel Pnrr di lotta all'evasione fiscale. E non servivano capacità divinatorie per capire fin da subito che l'Ue non avrebbe potuto esprimersi altrimenti.
Ma prima di trarre conclusioni, permetteteci di sfatare almeno in parte una leggenda, quella dei costi delle commissioni legate ai pagamenti digitali: esistono, eccome, ma sono meno penalizzanti di quanto si crede.
Proprio nelle ultime ore ci viene infatti in soccorso uno dei rari esempi di «fact checking» e «data journalism» italiani, ovvero la Dataroom da cui Milena Gabanelli si affaccia da anni sulle colonne del Corriere della Sera. Proprio ieri ha fatto i conti, al centesimo, sui costi legati al Pos (a proposito: sta per «Point of sale»): per farla breve, i costi medi a carico di un esercente sono dello 0,7% sui pagamenti con il bancomat e dell’1,2% su quelli effettuati con carta di credito oltre a 14 euro di canone mensile del Pos. Inoltre, fattore tutt'altro che secondario, molti grandi gruppi bancari applicano ormai zero commissioni sotto i 15 euro e in alcuni casi anche sotto i 10 euro. Insomma, il caffè con il cornetto al bar costa zero euro di commissioni e per una corsa in taxi da 20 euro pagata col bancomat si trattengono 10 centesimi. Gli esercenti, alle prese da anni con emergenze sempre più frequenti, hanno le loro ragioni, ma quelli che ancora pagano troppo dovrebbero provare ad adeguarsi a un mercato estremamente competitivo e dinamico (come si è già visto negli anni scorsi sui conti correnti) dove le offerte migliori non mancano, anzi. Per chiudere: non va dimenticato da un lato che la gestione (legale, ovviamente) del cash ha un costo che alla fine della fiera è più alto delle commissioni digitali e dall'altro che è poi il mercato a premiare o fare selezione naturale degli esercizi e delle attività che disdegnano il contante.
Detto questo e lasciando da parte il concetto di «libertà» (non esiste solo quella di chi gestisce un Pos, ma anche quella dei consumatori, ovvero di tutti i cittadini), dopo poche settimane dall’insediamento il governo Meloni deve trarre almeno tre lezioni da questa vicenda che potranno rivelarsi utili per portare a termine una legislatura che si annuncia tutt’altro che facile.
La prima concerne i rapporti con l’Europa che, per quanto fastidio possano dare ad alcuni esponenti del governo, non possono essere calpestati. Non è questione di etichetta ma di comprendere che fare parte dell’Unione europea implica la condivisione di diritti e doveri e soprattutto di valori. Tanto più che, a voler fare un puro calcolo di convenienza, siamo appesi a quasi 200 miliardi di aiuti legati al Pnrr e adottare misure non in linea con gli obiettivi del Piano è semplicemente masochistico. Un esempio dei possibili effetti lo abbiamo visto di recente con un governo «sovranista», quello di Viktor Orban in Ungheria: la Commissione europea ha confermato che Budapest non soddisfa i requisiti richiesti da Bruxelles per l’erogazione dei fondi di coesione e li ha congelati. Insomma, non si può essere europei quando c’è da portare a casa fondi consistenti e poi non esserlo quando si vuole compiacere una parte dell’elettorato.
La seconda lezione si lega proprio a quest’ultimo aspetto: la battaglia «no Pos» era evidentemente indirizzata a un target di riferimento specifico, ma le promesse che è facile elargire in campagna elettorale si scontrano fatalmente con il realismo dei conti pubblici quando si esercita l’arte del governare, tanto che l’esecutivo ha dovuto smussare anche altri aspetti della manovra, come ad esempio le pensioni minime, che saranno adeguate aumentando a 600 euro ma solamente per gli over 75.
E veniamo al terzo aspetto: l’immagine. Il governo non esce benissimo da questa retromarcia peraltro annunciata: la sterzata su un tema così divisivo e identitario non consegna un’immagine di forza né di coerenza e rischia di oscurare gli altri provvedimenti, come il taglio del 3% sul cuneo fiscale elevato a 25mila euro di reddito (anche se accoglie solo in minima parte le richieste avanzate da Confindustria) o lo sgravio contributivo di 8mila euro per chi assume percettori del reddito di cittadinanza.
L’errore da evitare da parte dell’esecutivo di centrodestra, già molto rigido nel suo no di principio al Mes, è quello di ingaggiare battaglie con i mulini a vento, sostenendo che le colpe sono del quadro economico oppure delle decisioni prese a Bruxelles o a Francoforte, un gioco troppo facile e che purtroppo abbiamo visto già altre volte. Peggio ancora, infine, sarebbe l’utilizzo dell’arma del vittimismo evocando i fantasmi dei «sabotaggi» nei confronti dell’Italia. Servirebbe solo a perdere di vista gli obiettivi reali.
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