Il conflitto e le trattative
Il terzo anniversario dell’invasione russa contro l’Ucraina sta rivelando uno scenario che solo pochi analisti avevano previsto sin dal 24 febbraio 2022: una resa (quasi) incondizionata dell’Ucraina, dovuta ad un progressivo disimpegno dell’amministrazione presidenziale di Donald Trump.
Eppure, chi studia le relazioni internazionali e la politica estera americana sa che le superpotenze si trovano spesso dinanzi al dilemma della «solvibilità strategica», che consiste nel valutare sino a che punto l’investimento di capitale umano, economico e militare in diverse zone geopolitiche possa garantire l’equilibrio tra risorse di potere e impegni sul campo per evitare di perdere la guida egemonica dell’ordine internazionale. Ne abbiamo avuto una dimostrazione lampante con la «fuga» degli Stati Uniti dall’Afghanistan nell’agosto 2021 nella convinzione che un conflitto in Ucraina si stesse avvicinando e avrebbe, quindi, richiesto un ingente intervento di assistenza economica e militare.
Si potrebbe obiettare che un secondo mandato di Joe Biden avrebbe evitato questa situazione, ma se teniamo in considerazione i documenti ufficiali che determinano i principi della politica internazionale americana, pubblicati negli ultimi quindici anni, troviamo un filo rosso che lega l’amministrazione democratica a quella repubblicana: i «Concetti strategici di difesa» degli Usa dove si dichiara, infatti, che la Cina è il principale avversario economico degli Usa mentre la Russia è una concreta minaccia militare. Da queste basilari premesse è plausibile, quindi, ritenere che anche Biden avrebbe maturato nel tempo una decisione simile, anche per la rilevanza che hanno assunto le dinamiche politiche nell’Indo-pacifico con lo spettro di un attacco cinese contro Taiwan. Come la Russia dopo il crollo dell’Unione Sovietica, anche Pechino vuole, infatti, superare l’onta del «secolo delle umiliazioni» attraverso un ambizioso progetto di rinascita cinese previsto per il 2049, centenario della fondazione della Repubblica popolare cinese, che prevede una riunificazione con Taiwan (One China Policy) per assicurarsi l’accesso diretto all’Oceano Pacifico e spezzare la rete di alleanze creata dall’egemone statunitense.
Tuttavia, c’è un’altra importante considerazione da tenere presente che spiega la sostanziale differenza nell’approccio di Biden e Trump alla guerra in Ucraina. Nel febbraio 2022, il segretario di Stato, Anthony Blinken e quello della Difesa, Lloyd Austin, avevano esplicitamente dichiarato che l’obiettivo degli Usa era un lento indebolimento della Russia di Vladimir Putin: «Vogliamo vedere la Russia indebolita al punto che non possa più fare le cose che ha fatto invadendo l’Ucraina». Nella strategia occidentale, il «logoramento della Russia» avrebbe consentito la vittoria dell’Ucraina, declinata anche come «vittoria delle democrazie» sui regimi autoritari. A tal riguardo, Biden aveva affermato nel 2023: «Abbiamo costruito un'alleanza in tutto il mondo, circa 50 Paesi hanno aiutato l'Ucraina a difendersi, abbiamo unito le democrazie del mondo».
Tuttavia, le democrazie hanno fatto i «conti senza l’oste» russo, ritenendo che l’auspicabile débacle russa sul piano militare, economico e politico fosse imminente con il conseguente crollo del regime putiniano e la vittoria dell’Ucraina.
Effettivamente, la vera débacle russa è avvenuta proprio nelle primissime ore dell’avvio della cd. «operazione speciale militare», dimostrando quanto l’intelligence e l’esercito russi fossero impreparati per affrontare una guerra e avessero fallito nel tentativo di sostituire Volodomyr Zelensky con l’ex presidente Viktor Janukovič.
Da allora, abbiamo assistito nel dibattito politico e pubblico ad affermazioni che sottolineavano che la Russia aveva mezzi militari obsolescenti, una quantità insufficiente di armi, l’assenza di un piano militare ben congegnato e generali incompetenti che avevano «umiliato» le gesta dell’Armata rossa del passato.
È una descrizione che rispecchia verosimilmente la situazione della Russia nel 2022, ma sottovalutando il Cremlino, abbiamo successivamente assistito ad un rafforzamento della strategia sul campo attraverso numerose sostituzioni nella gerarchia militare, apportate personalmente da Putin. Il capo del Cremlino ha, nel frattempo, stretto una forte alleanza con la Corea del Nord, codificata da un trattato, per ottenere aiuti militari (così come dall’Iran e dalla Cina, per citare i più importanti), che hanno consentito di affrontare una guerra di attrito, di conquistare, lentamente, ma progressivamente, nuove porzioni di territorio ucraino, fermandosi, ad oggi, a 5 km dalla quinta regione ucraina (oblast’) di Dnipropetrovsk occupata dai russi.
Nella narrazione «mainstream», prevalente nei media occidentali e nel dibattito televisivo e social italiano, la débacle russa sarebbe avvenuta anche per una rivoluzione della società russa, per lo stato di salute, fisico e mentale, di Putin e per il tracollo economico a causa delle sanzioni. In realtà, un’attenta analisi delle dinamiche domestiche della Russia avrebbe facilmente smentito queste aspettative, come alcuni esperti di questo Paese hanno evidenziato da tempo. In primo luogo, le politiche repressive implementate dal Cremlino in questi anni contro i dissidenti al regime hanno costituito un efficace deterrente per qualsiasi russo che intenda opporsi al regime. Nel diritto penale russo bastano tre fermi amministrativi per avviare un procedimento contro chiunque manifesti apertamente la propria contrarietà alle volontà del presidente, rischiando sino a venticinque anni di prigione, come il caso del giornalista, Vladimir Kura-Murza ha dimostrato. Questa politica spiega, in gran parte, perché abbiamo assistito nel primo anno della guerra a una diminuzione delle proteste nelle principali città russe. A ciò si aggiunga la morte di Aleksej Navalnyj, il principale oppositore di Putin, che ha spento qualsiasi speranza di un cambiamento di regime tra coloro che hanno sempre lottato per una Russia più libera e democratica. Sulla «pazzia e malattia» di Putin si è scritto molto e senza alcun reale fondamento già dal 2013, ma, al netto di quelle che possono essere le condizioni fisiche di un settantenne, sinora il presidente russo ha dimostrato di essere sufficientemente pragmatico, calcolatore, per nulla impulsivo come un «giocatore di poker», etichetta utilizzata in questi giorni dall’Economist.
Prendere decisioni in tempi di guerra da cui dipenderanno le sorti di una popolazione, non può basarsi su una mera speculazione dello stato di salute di un leader.
Infine, la questione delle sanzioni imposte dall’Europa alla Russia, che avrebbero determinato un tracollo immediato del sistema economico russo, si è rivelata priva di alcuna evidenza empirica. Posto che sia giusto applicare uno strumento del diritto internazionale, volto a sanzionare chi infrange le regole condivise, è, altresì, vero che, come dimostrano i dati nel sito Database Global Sanctions, gli effetti sono efficaci solo nel medio-lungo periodo. Prematuro, quindi, parlare della débacle economica anche per la presenza al vertice della Banca centrale russa della governatrice Elvira Nabiullina, molto stimata a livello internazionale, che ha salvato più volte la condizione economica del Paese, già dai primi pacchetti di sanzioni europee del 2014 e ha impostato una nuova politica economica che non si adagia esclusivamente sulle risorse naturali della Russia.
Ciò non vuole dire che l’economia russa non stia subendo serie fibrillazioni. Come ha, infatti, dichiarato la Nabiullina: «lo scenario attuale è di stagflazione e sarà possibile fermarlo solo a costo di una profonda recessione».
L’attuale situazione economica, unita alla necessità di rinforzare l’approvvigionamento delle armi per protrarre la propria presenza in Ucraina anche nei prossimi anni, ha molto probabilmente indotto il presidente Putin a riaprire il dialogo con gli Usa di Trump a tal punto da accettare una tregua/negoziato. Come si evince da un’analisi dell’International Institute for Strategic Studies britannico, il Cremlino avrebbe raggiunto un «punto critico di esaurimento» di armi già nel 2025; una pausa consentirebbe ad un Paese in economia di guerra, che investe 32,5 punti percentuali dell’intero bilancio nella politica di difesa, di rafforzarsi in previsione di scenari futuri che potrebbero, comunque, non escludere una ripresa del conflitto dopo la fine del mandato di Trump nel 2028 e prima delle elezioni presidenziali russe del 2030.
Al di là delle previsioni su quello che accadrà nelle prossime settimane dove Trump intende dichiarare entro Pasqua di aver posto fine alla guerra in Ucraina, come ha promesso nella campagna elettorale, e Putin di celebrare la vittoria della Russia nella parata della Piazza Rossa il prossimo 9 maggio, pare evidente che ci siano stati imperdonabili errori di (sotto)valutazione nella strategia occidentale verso la Russia.
Anche Navalnyj, nel suo libro postumo «Patriot», ci ha esortato a non sottovalutare «la resilienza delle autocrazie nel mondo moderno». Secondo i dati di Freedom House, che monitora i cambiamenti dei regimi politici, oltre l’80 per cento della popolazione mondiale vive in Stati autoritari o ibridi e le democrazie sono quantitativamente e qualitativamente in declino.
Ciò non toglie che la stabilità politica della Russia possa venir meno per qualche «effetto sorpresa», come è accaduto spesso nella storia di questo paese dall’Ottocento ai giorni nostri, e come la marcia su Mosca di Evgenyj Prigožin nel giugno 2023 rappresenta l’esempio più paradigmatico.
Tuttavia, è bene tenere presente per il futuro che la Russia di Putin è una potenza nucleare che non consentirà facilmente di perdere dalla propria «sfera d’influenza» l’Ucraina o la Georgia per ragioni storiche, culturali e imperialistiche.
E questa situazione implica un’attenta riflessione su quello che sarà l’assetto della sicurezza del continente europeo. Nell’impossibilità di un intervento diretto della Nato nel marzo 2022 per scongiurare un’escalation mondiale del conflitto ucraino, l’Unione europea (Ue) ha abdicato a quella che è sempre stata la sua mission genetica e l’imprinting organizzativo: la promozione e il progresso della pace quale ragione fondamentale del processo di integrazione europea. L’assistenza militare dei Paesi europei e quella economica dell’Ue hanno spostato il baricentro della difesa dei valori liberaldemocratici dalla Nato all’Ue, privando, quest’ultima, della politica di mediazione del conflitto che l’ha sempre caratterizzata. Tradotto in termini operativi, significa che per la sua peculiare configurazione istituzionale e il sistema di alleanze occidentali, l’Ue ha, inevitabilmente, consentito agli Usa, partner di maggioranza della Nato, di dettare le regole del gioco, concentrandosi, invece, sul sostegno militare, economico e umanitario all’Ucraina. Il risultato di queste settimane è che l’Ue si è sostanzialmente autoesclusa dalle trattative, pur rivendicandone, ad alta voce, la legittimità politica nel farne parte perché, secondo le parole di Putin, porta avanti una narrazione di «guerra» e non di «pace».
Ora che la politica di Trump sta lasciando l’Europa da sola nella difesa della sovranità e dell’indipendenza dell’Ucraina, i leader europei sono alla ricerca di una soluzione che non è più procrastinabile. Prima o poi, i nodi vengono sempre al pettine e all’Ue non è servita la prima legislatura di Trump per comprendere quanto fosse prioritaria una maggiore autonomia politica su settori strategici per la sopravvivenza dell’Ue.
La frattura tra gli Stati Uniti e l’Europa non è mai stata storicamente così acuta e profonda nelle relazioni transatlantiche e anche autorevoli personalità quali l’ex presidente della Commissione europea, Romano Prodi («Cara Europa, svegliati e disegna il tuo futuro!»), e l’ex premier e governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi («Fate qualcosa»), hanno sollecitato l’Ue a reagire contro le sfide politiche delle potenze revisioniste (Cina e Russi, in primis) e del disimpegno americano in Europa.
Il rischio che non possiamo permetterci di sottovalutare è che la strategia di Trump di «staccare» la Russia dalla Cina per indebolire quest’ultima e le velleità imperialistiche di Putin accerchieranno l’Europa con implicazioni non solo politiche, ma, questa volta, anche economiche. Queste superpotenze sono consapevoli che l’Ue è sempre stata un «nano politico, un gigante economico e un verme militare» nella definizione di Henry Kissinger e, come tale, sfruttano le incertezze e le debolezze dei Paesi membri per minare la politica di coesione europea.
Se sul piano economico è più difficile indebolire l’Ue nel breve periodo, su quello politico vi è il rischio, tutt’altro che trascurabile, che l’Europa perda la sua rilevanza e autorevolezza. Basti pensare al fatto che le elezioni parlamentari in Germania sono sempre state considerate «cruciali» per i destini dell’Europa e, ora, sono considerate «importanti» per contrastare l’ascesa della forza ultranazionalista, «Alternativa per la Germania», in un assetto internazionale dove l’ondata del ritorno dei nazionalismi ed estremismi in Europa ha raggiunto anche l’America da più di un decennio.
La Germania, un tempo «motore economico» dell’Europa sta affrontando una crisi profonda, così come è in crisi il macronismo francese. Paradossalmente è l’Italia, schernita in passato come il paese del «bunga-bunga» dai vicini Paesi europei, che ha il governo più stabile, guidato da Giorgia Meloni, un’interlocutrice privilegiata di Trump e dalle cui scelte potrebbe dipendere l’ulteriore indebolimento dell’assetto europeo ovvero una formula efficace per difenderne gli interessi.
Il «fronte est» dell’Ue, costituito essenzialmente dai Paesi baltici e dalla Polonia, rivendica, invece, il diritto di aumentare la spesa per la difesa, sollecitando la Commissione europea ad investire maggiormente in questo settore. Sulla stessa linea si trova anche il segretario generale della Nato, Mark Rutte, che prospetta di aumentare al 3,5 per cento l’impegno di spesa militare, suddiviso equamente tra i paesi membri e il debito comune Ue.
Gli esperti di strategia militare hanno sempre sostenuto che la creazione di un esercito comune europeo richiede quasi dieci anni con diverse incognite sulla capacità di raggiungere le 300.000 unità di soldati richiesti qualora gli Usa decidessero di non dispiegare immediatamente i 100.000 uomini in caso di un attacco a un Paese Nato.
Le prossime settimane forniranno maggiori indicazioni per confermare o meno l’evoluzione della guerra in Ucraina sinora prospettata. Al momento, pare evidente che la situazione per l’Europa è seria, ma (non ancora) grave, ma con un dato incontrovertibile: l’inadeguatezza della sua classe dirigente, incapace di avere una visione strategica e sistemica da decenni. Urge una leadership europea all’altezza delle sfide globali: speriamo non sia troppo tardi.
Mara Morini
© Riproduzione riservata
Gazzetta di Parma Srl - P.I. 02361510346 - Codice SDI: M5UXCR1
© Gazzetta di Parma - Riproduzione riservata