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EDITORIALE

Assicurare un futuro al made in Italy

Made in Italy, ecco le sfide del futuro

di Aldo Tagliaferro

28 Ottobre 2025, 15:38

Che i cosiddetti «investimenti diretti esteri» siano fondamentali per la crescita dell’economia è assodato da tempo. Quasi codificato: il ministero degli Affari Esteri lo mette addirittura nero su bianco sul proprio sito. Sebbene questi siano tempi di profondo ripensamento della globalizzazione e di ribilanciamento delle catene del valore, un investimento dall’estero - che nella stragrande maggioranza dei casi rientra nella categoria delle «fusioni e acquisizioni» - continua a produrre numerosi vantaggi, soprattutto in un Paese come il nostro la cui ossatura industriale è composta in larghissima parte di piccole e medie imprese, spesso costruite intorno a una famiglia, sempre più bisognose di entrare in circuiti più grandi, di ricevere iniezioni di liquidità che non sempre il sistema bancario può garantire, di aumentare la spesa in ricerca e sviluppo, di integrarsi in logiche più efficienti di economie di scala.

Un tempo questo era il tallone d’Achille del nostro sistema, su cui gravavano (e a ben guardare pesano tuttora…) bizantinismi burocratici e un fisco non proprio invitante, ma da diverso tempo la situazione è cambiata. Bene, si dirà.
Sì, però facendo due conti comincia anche a insinuarsi il dubbio che forse il cambiamento è stato eccessivo. Prendiamola larga: se c’è una cosa che unisce l’Italia (e al tempo stesso la divide…) come nessun’altra è il calcio. Oggi la bellezza di 12 squadre su 20 in Serie A sono di proprietà straniera: tanti americani, ma anche cinesi, rumeni, indonesiani, arabi... E lo sappiamo bene a Parma dove Kyle Krause ha fatto fior di investimenti di ampio respiro in questi anni pensando anche alle infrastrutture e non solo a bomber e terzini. Di più: la Serie B pullula di investitori da ogni latitudine, il Padova è di un finanziere franco-armeno, il Palermo fa capo a due sceicchi, e così via perfino in Serie C. Non sono stranieri solo nove undicesimi delle squadre, anche le proprietà del nostro pallone vengono da lontano, affascinate dall’epopea azzurra e dai grandi campioni italianissimi del passato che oggi ahinoi latitano.

Un altro tratto distintivo dell’Italia nel mondo è la moda. E anche in questo caso la stragrande maggioranza delle maison è di proprietà straniera. Qualche esempio? Gucci, Bottega Veneta e Pomellato sono di Kering; ma François-Henri Pinault controlla anche Dodo e Richard Ginori; Lvmh è proprietaria, tra le altre, di Bulgari, Loro Piana, Acqua di Parma, Fendi. Valentino fa capo a Mayhoola for Investments (Qatar). E via così. L’elenco dei gruppi percepiti come italiani ma che sono nelle mani di capitali stranieri, dalla Pirelli (cinese) alla nostra Parmalat acquistata da Lactalis, è lunghissimo. Si tratta di investimenti importanti per le aziende e per il Paese perché molto spesso valorizzano gli stabilimenti locali, utilizzano al meglio il know how e la tradizione che ha reso appetibile il brand, fanno circolare il nome in tutti i mercati del mondo.

Però si corrono anche dei rischi. Soprattutto quando l’investimento non è così diretto. Prendiamo il caso di Fiat: a furia di acquisizioni e concentrazioni del settore dell’automotive, oggi quella che fu la prima azienda del Belpaese fa parte di un Gruppo le cui priorità non partono più dall’Italia perché altri marchi che lo compongono hanno interessi maggiori altrove, dagli Stati Uniti alla Francia. E a questo punto a essere messo in discussione non è soltanto il futuro degli stabilimenti italiani ma addirittura il valore aggiunto della produzione, il senso della sua storia. Insomma, quell’ «italianità» che di solito sta alla base delle acquisizioni.

Ecco, viene da chiedersi se fra dieci, venti, trent’anni questi gruppi italiani - soprattutto le aziende più piccole che non sono sotto i riflettori - dopo aver trascorso diversi lustri in mano straniera avranno saputo mantenere intatto quel patrimonio di conoscenze e il Dna che le ha rese grandi. La risposta sta da un lato nella capacità di visione di chi investe ma dall’altro risiede nel sistema Paese, chiamato a difendere non tanto un nazionalismo fine a sé stesso ma il proprio patrimonio economico, intellettuale e industriale, tutte quelle qualità che rendono riconoscibile un prodotto «Made in Italy» al primo sguardo.
L’emorragia di cervelli verso l’estero, con un saldo negativo di 53mila unità nella fascia 18-34 anni nel 2023, e le iscrizioni con il contagocce al nuovo liceo del «Made in Italy»” - poco più di 500 studenti secondo gli ultimi dati disponibili - non sono elementi che fanno ben sperare se vogliamo trasferire il messaggio alle nuove generazioni. Eppure i numeri per farcela, soprattutto nelle situazioni più complicate, ce li abbiamo. In fondo è sempre stata la nostra forza.

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