editoriale
Si invocava da tempo una retromarcia. E retromarcia, formalmente e ideologicamente, è stata. Ma la revisione da parte della Commissione europea del target di riduzione delle emissioni di Co2 al 2035 - dal 100% al 90% - non segna assolutamente un cambio di rotta. Certo, l’Europa ha dovuto sedersi sulle macerie dell’automotive prima di riconoscere con colpevole ritardo che le scelte dogmatiche del Green Deal erano sbagliate nei tempi e nei modi. Ma chi auspicava un dietrofront totale che insieme ai panni sporchi rischiava di buttare via anche il bambino (ovvero decine di miliardi di euro investiti dai costruttori nella mobilità verde) è rimasto deluso. E infatti i nemici dell’elettrico - sostanzialmente le destre più conservatrici - stanno già sbraitando (ora la palla passa a Parlamento e Consiglio). Bruxelles in realtà ieri ha chiaramente ribadito che la via maestra era e rimane quella dell’elettrico. Ha però, con un salutare bagno di realtà, preso atto della situazione.
Da un lato ha aperto ai biocarburanti fortemente caldeggiati dall’Italia e agli e-fuels sostenuti da Berlino, e dall’altro garantisce un supplemento di futuro ai motori tradizionali - intesi come parte di un sistema ibrido plug-in oppure piccoli propulsori a supporto dei cosiddetti range-extender - ma se guardiamo ai target reali di emissioni al 2035 la sostanza cambia pochissimo: oggi la media concessa a ogni brand è di 95 g/km, che è già un target molto sfidante: per arrivare con i nuovi limiti a circa 9 o 10 grammi l’apporto di un motore termico sarà comunque prossimo allo zero. Dunque, l’Europa mantiene la direzione ma prende atto che non ci sono ancora le condizioni per una transazione verde così repentina. Nell’immediato cosa cambierà? Poco: il mercato italiano rimane e rimarrà debolissimo (1,5 milioni, 400mila auto meno del periodo pre-Covid, previsioni tristemente stabili per il 2026); l’utente continua a essere spiazzato perché i continui tira e molla regolamentari contribuiscono solo ad aumentare la confusione; le fabbriche europee continuano a fare fatica (Volkswagen ha dovuto chiedere da ieri uno stabilimento in Germania, a Dresda: non era mai accadauto in 88 anni); e intanto il resto del mondo imbocca imperturbabile altre direzioni, come dimostra Ford che negli Stati Uniti ha annunciato lunedì 19,5 miliardi di dollari di extra-oneri nel percorso di revisione della fallimentare strategia sui veicoli elettrici per puntare su quelli a benzina (questa sì è una retromarcia). Quanto alle nuove mini vetture elettriche europee annunciate ieri Bruxelles dovrà adoperarsi per sostenere una filiera che fatica a reggere da sola quando parliamo di terre rare e batterie.
Ma era lecito attendersi qualcosa di diverso? Non proprio. Gli investimenti in modelli e infrastrutture sono stati troppo elevati nel corso degli anni per pensare di invertire del tutto la rotta e, dal punto di vista ambientale, le esigenze climatiche non sono affatto mutate. In sostanza: un ritorno immediato ai motori tradizionali non risolverebbe come per incanto i problemi sul tappeto perché la crisi dell’auto nasce ben prima della svolta elettrica: costi troppo elevati anche per i modelli tradizionali, filiere lunghe minate dai sommovimenti geopolitici, mercato in contrazione, una concorrenza cinese ormai inarrestabile e - per restare all’Italia - una fiscalità che penalizza la mobilità e non aiuta il mercato delle flotte aziendali.
Quello che serve ora in Italia è un percorso serio di accompagnamento alla transizione: investimenti sui biocarburanti, politiche di fiscalità competitive che aumentino le auto aziendali, che oggi si fermano al 46,8% contro il 66,3% della Germania, strutture efficienti e diffuse per le auto elettrificate, costi energetici più contenuti per le ricariche. Perché uno dei problemi principali nel nostro Paese è la percezione: da un’analisi della Luiss Business School presentata proprio ieri emerge con chiarezza che il vero nodo della transizione all’auto elettrica prima ancora che tecnologico o economico, risiede soprattutto nel gap tra percezione e consapevolezza. L’Europa ha finalmente iniziato a percepire qualcosa, forse è il momento che ci rimbocchiamo le maniche anche noi.
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