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editoriale

Seconda Repubblica e rapporti di potere

Seconda Repubblica e rapporti di potere

di Luca Tentoni

23 Dicembre 2025, 09:07

Nella Seconda Repubblica, sempre più spesso, si usa l'espressione "conquistare il potere" al posto di "andare al governo". Non è solo una moda linguistica, ma una visione della politica. Il potere non è solo sul governo, ma anche sul Parlamento, sul proprio partito e magari anche sul proprio polo, senza dimenticare i rapporti con le istituzioni: Presidenza della Repubblica, Corte costituzionale, Magistratura (al giudice che condanna un politico si può rispondere talvolta che non può farlo perchè il togato non è stato eletto dal popolo), autorità garanti e di controllo. Ma anche nei rapporti con la stampa (alla quale si possono negare interviste, se non si è graditi a questo o a quel leader di partito), soppiantata ormai nel gradimento dei politici dai social network.

Social network che sono passati - come ha notato il direttore della "Stampa" - dall'informazione alla comunicazione (che sono cose molto diverse: la stampa spiega e racconta, il leader dice ciò che pensa senza contraddittorio perchè parla dal suo pulpito telematico). Non che nella Prima Repubblica non ci fossero tentativi di affermare leadership che erano insieme premiership: ci provò Fanfani nella seconda metà degli anni Cinquanta (poi la Dc lo silurò da presidente del Consiglio e da segretario del partito), poi De Mita alla fine degli anni Ottanta (stessa fine, stesso partito), mentre a Craxi non accade nulla finché restò a Palazzo Chigi e ancora per qualche tempo (per circa quattro anni fu insieme segretario del Psi e premier non ci fu opposizione interna, perchè il suo era già un "partito del capo"). Però l'idea del "potere", intesa come dominio sul governo (che per esempio era tipica del Pci di Togliatti, ma il partito sopravvisse alla morte del leader, quindi non era come alcuni partiti contemporanei che si identificano talmente col capo che, se questi viene meno - come fu per la prima volta proprio con Craxi nel '93 - crollano e quasi scompaiono) e come durata a Palazzo Chigi o come partito di governo (la Dc ebbe un suo premier in tutti gli Esecutivi dal 1945 al 1981, poi nel 1982-'83 e 1987-'92: Andreotti diceva che "il potere logora chi non ce l'ha) era stata abbozzata in modo del tutto embrionale prima della "discesa in campo" di Berlusconi. Lo stesso Cavaliere, che fondò il primo grande e importante partito personale (che gli sopravvisse, sia pure con percentuali inferiori al 10%, ma non lontane da quanto otteneva negli ultimi anni con Berlusconi) fece scuola, sia per l'uso della parola "potere", sia perché il partito personale e la tendenza a identificare premiership e leadership (accentrando appunto il potere) si diffuse a quasi tutti gli altri partiti. Oggi si può dire che parecchi soggetti politici dipendono totalmente dai propri capi non solo perchè questi hanno il potere, ma perchè senza di loro (anche a causa della grande volatilità elettorale dello scorso decennio, che ora è sopita ma può sempre tornare) il partito finirebbe in briciole alla prima prova elettorale. Il "potere" non è solo nazionale: abbiamo visto che alcuni governatori hanno fatto di tutto per ottenere un terzo mandato che in alcuni casi sarebbe stato il quarto (ora il limite è di due, cioè dieci anni, ma si è arrivati in passato a quindici anni di "regno locale"), con tutto ciò che ne discende sugli equilibri nelle partecipate e nel sistema politico locale. Il "potere" oggi è declinato insieme alla durata: non è casuale che sugli otto governi più longevi dal 1945 in poi ben sei siano della Seconda Repubblica (in proporzione, dovrebbero essere solo tre) fra i quali i primi tre in graduatoria (due Berlusconi, uno Meloni). Il potere può essere utilizzato per servire il Paese oppure per tirare un po' troppo la corda (per esempio, imponendo alle Camere leggi di bilancio approvate all'ultimo momento con maxiemendamenti non discussi, come succede da troppi anni, con tutti i poli e i premier). Poi ci sono stati anche i leader politici che hanno chiesto "pieni poteri" (ma l'elettorato ha finito per stancarsene). E, infine, grandi insegnamenti: Giovanni Spadolini, nel suo discorso in Senato il 17 maggio 1994, disse che «in democrazia si va al governo, non si va al potere; la parola «potere» è stata introdotta nel mondo moderno dalle ideologie dittatoriali o dalle giunte militari, non si va al potere, si va al governo e sempre con le valigie pronte».

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