142.351 parmigiani al voto
Sono 3,3 milioni gli elettori che domenica e lunedì sono chiamati in Emilia-Romagna alle urne per i referendum. Si vota dalle 7 alle 23 e lunedì dalle 7 alle 15. Per la precisione, secondo i dati diffusi dalla Regione, gli iscritti alle liste elettorali sono 3.370.692, di cui 1.640.313 uomini e 1.730.379 donne, che voteranno in 4.537 sezioni elettorali.
Gli elettori ammessi a votare fuorisede, sperimentazione confermata dopo le europee dell’anno scorso, sono 12.707, di cui 4.620 per motivi di lavoro, 8.366 per motivi di studio e 81 per cure mediche. Gli elettori emiliano-romagnoli iscritti all’Anagrafe dei residenti all’estero sono invece 219.812. Risultano regolarmente costituite le 204 sezioni elettorali del Comune di Parma. Il totale degli elettori iscritti nelle liste del Comune di Parma per i referendum abrogativi dell’8 e 9 giugno è di 142.351, di cui 74.557 femmine e 67.794 maschi. I risultati del referendum abrogativo, come in questo caso, sono validi solo se partecipa almeno la metà degli aventi diritto di voto, cosa che permette il raggiungimento del quorum.
Primo quesito sul Jobs act-licenziamenti
Il primo dei quattro referendum sul lavoro, promossi dalla Cgil, chiede la cancellazione della disciplina sui licenziamenti del contratto a tutele crescenti introdotto nel 2015 con il Jobs act del governo Renzi, applicata a chi è stato assunto dal 7 marzo 2015 in poi in imprese con oltre 15 dipendenti. Si tratta della nuova tipologia di contratto che fissa diverse soglie di indennizzo economico, con l'aumentare dell’anzianità di servizio - le tutele crescenti - passando da un minimo di 6 mesi fino ad un massimo di 36 mesi. La norma attuale, invece, ha tolto, per la genericità dei casi e anche per alcuni licenziamenti illegittimi, il reintegro. La possibilità che il giudice preveda il rientro al lavoro è comunque rimasta anche oggi nei casi di licenziamento discriminatorio (ad esempio per ragioni legate a opinioni politiche, religiose o disposto durante la maternità o intimato in forma orale) e in specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato. Lo snodo su chi gli italiani sono chiamati a decidere è tra la necessaria flessibilità che un’azienda deve avere per promuovere sviluppo e lavoro e la tutela che invece va garantita al lavoratore per dargli certezze sul proprio futuro, un modo anche questo di sostenere famiglie ed economia. L’equilibrio tra queste due esigenze economiche è quello al centro di questo primo quesito. La Cgil, che è tra i promotori, calcola che gli occupati assunti dopo il 7 marzo 2015 - che quindi sono automaticamente inseriti nel contratto a tutele crescenti - sono oltre 3 milioni e 500mila e aumenteranno nei prossimi anni. E sostiene che sono «penalizzati da una legge che impedisce il reintegro anche nel caso in cui il giudice dichiari ingiusta e infondata l'interruzione del rapporto». I contrari invece ritengono che cancellando le norme previste dal Jobs Act si torni al passato, irrigidendo il mercato del lavoro. Anche sugli effetti concreti c'è un dibattito. Se è vero che rientra la possibilità di reintegro,sugli indennizzi è aperto un confronto: per la Cgil la soglia minima dovrebbe essere di un anno rispetto ai sei mesi attuali, mentre la Cisl ritiene che il tetto degli indennizzi dovrebbe essere di 24 mesi contro i 36 attuali.
IL QUESITO: «Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante «Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183» nella sua interezza?».
Secondo quesito, tutele e piccole imprese
Il secondo quesito dei quattro referendum sul lavoro promossi dalla Cgil incide sui licenziamenti illegittimi delle piccole imprese. In particolare, riguarda la cancellazione del tetto all’indennità nei licenziamenti nelle imprese con meno di 16 dipendenti: qui in caso di licenziamento illegittimo oggi una lavoratrice o un lavoratore può al massimo ottenere 6 mensilità di risarcimento, anche qualora un giudice reputi infondata l’interruzione del rapporto di lavoro.
Secondo i proponenti, il bacino di lavoratori sottoposti alla norma è di circa 3 milioni e 700mila dipendenti. L’obiettivo del referendum abrogativo - sostiene la Cgil che lo ha proposto - è quello di 'innalzare le tutele di chi lavora, cancellando il limite massimo di sei mensilità all’indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato affinché sia il giudice a determinare il giusto risarcimento senza alcun limitè.
Tra gli argomenti dei proponenti anche la cancellazione di una differenziazione tra lavoratore di piccole imprese e lavoratore di aziende più grandi. Per chi contrasta il quesito la cancellazione del tetto dei sei mesi agli indennizzi delle piccole imprese rischierebbe per loro di rendere imbrigliato il mercato del lavoro: non ci sarebbe infatti una soglia di rischio per l’indennizzo da pagare in caso di licenziamento. Come nel primo quesito il dilemma è nel punto di equilibrio che va ricercato tra flessibilità delle imprese e tutela dei diritti di chi lavora.
IL QUESITO: «Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante «Norme sui licenziamenti individuali», come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle parole: «compreso tra un», alle parole «ed un massimo di 6» e alle parole «La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro"?».
Terzo quesito sui contratti a termine
Il terzo dei quattro quesiti referendari mira a cancellare la possibilità di fare contratti a termine senza indicare causali per i primi 12 mesi. Di fatto incide sulle norme del Jobs Act ma anche su alcuni interventi introdotti dal governo Meloni. Sui contratti a termine si sono succedute norme nel tempo. L’obbligo di causali per le assunzioni fino a 12 mesi era stato eliminato nel 2015 con il Jobs act del governo Renzi e poi reintrodotto nel 2018 con il decreto Dignità del governo Conte. L’ultima modifica è arrivata nel 2023 con il decreto Lavoro del governo Meloni, che ha escluso, per i rinnovi e per le proroghe, l’esigenza delle causali per i contratti fino a 12 mesi e introdotto nuove causali per i contratti con durata compresa tra i 12 e i 24 mesi (tra cui quella per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti in assenza della previsione contrattuale, che è possibile stipulare fino a fine anno). Chi voterà 'SI' farà ritornare l’obbligo di inserire una motivazione per i contratti a termine di durata inferiore a 12 mesi che, secondo la Cgil che ha promosso il quesito, interessa circa 2 milioni e 300mila lavoratori.
Per la Cgil, questo referendum punta a «rendere il lavoro più stabile e certo» mentre i contratti a termine senza causali si prestano ad un utilizzo disinvolto del lavoro in un contesto nel quale le percentuali di disoccupazione consentono la creazione di precarietà. Per i contrari, invece, la norma fa tornare indietro nel tempo, ingessando un meccanismo che da una parte consente flessibilità per alcune tipologie di lavori (come quelli stagionali) e dall’altro rappresenta una delle forme di ingresso per una stabilizzazione lavorativa.
IL QUESITO: «Volete voi l’abrogazione dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 recante «Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183», comma 1, limitatamente alle parole «non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque», alle parole «in presenza di almeno una delle seguenti condizioni», alle parole «in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2025, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti;» e alle parole «b bis)"; comma 1 -bis , limitatamente alle parole «di durata superiore a dodici mesi» e alle parole «dalla data di superamento del termine di dodici mesi"; comma 4, limitatamente alle parole «,in caso di rinnovo," e alle parole «solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi"; articolo 21, comma 01, limitatamente alle parole «liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente"?».
Quarto quesito su appalti e sicurezza
Il quarto quesito referendario interviene in materia di salute e sicurezza sul lavoro e riguarda il cosiddetto testo unico del 2008: si chiede di modificare le norme attuali, che impediscono in caso di infortunio negli appalti di estendere la responsabilità all’impresa appaltante. Il tema della sicurezza sul lavoro, in particolare negli appalti, è tra quelli al centro dell’attenzione non solo del referendum, visto che il meccanismo dello sconto per ottenere la commessa può talvolta trasformarsi in minori tutele. Proprio recentemente, in uno dei tavoli a Palazzo Chigi con la parti sociali per affrontare il tema delle morti sul lavoro, il governo ha ipotizzato modifiche alle norme previste per gli appalti. La Cgil, che ha proposto il referendum, pone l’attenzione sui dati che indicano in circa 500mila le denunce di infortunio sul lavoro in un anno, con un totale di mille lavoratori morti: «Cambiamo le leggi che favoriscono il ricorso ad appaltatori privi di solidità finanziaria, spesso non in regola con le norme antinfortunistiche. Abrogare le norme in essere ed estendere la responsabilità dell’imprenditore committente significa garantire maggiore sicurezza sul lavoro». Coloro che non sono a favore del quesito, invece, pongono l’accento sull'inadeguatezza dello strumento referendario per incidere su questa materia.
IL QUESITO: «Volete voi l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante «Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro» come modificato dall’art. 16 del decreto legislativo 3 agosto 2009 n. 106, dall’art. 32 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modifiche dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nonchè dall’art. 13 del decreto legge 21 ottobre 2021, n. 146, convertito con modifiche dalla legge 17 dicembre 2021, n. 215, limitatamente alle parole «Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatricì?».
Quinto quesito sulla cittadinanza
L’8 e 9 giugno si voterà anche sulla legge del 1992 che regola la concessione della cittadinanza italiana agli stranieri. I cittadini riceveranno una scheda gialla per dare il loro parere. Secondo la legge in vigore, un adulto straniero, cittadino di un Paese che non fa parte dell’Unione Europea, deve risiedere legalmente 10 anni in Italia per poter chiedere la cittadinanza italiana. L’obiettivo del referendum abrogativo è ridurre da dieci a cinque anni il periodo di residenza, ripristinando un requisito introdotto nel 1865 e rimasto invariato fino al 1992. Il termine dei dieci anni rappresenta la regola generale ed è tra i più lunghi in Europa. La riduzione a cinque anni del requisito di residenza potrebbe indirettamente semplificare anche il percorso per molti minori stranieri: ad oggi un minore straniero nato in Italia da genitori non italiani non acquisisce automaticamente la cittadinanza ma può richiederla al compimento dei diciotto anni se ha risieduto legalmente e ininterrottamente in Italia fino a quel momento. Se si è d’accordo con il dimezzamento del requisito di residenza per concedere la cittadinanza italiana agli adulti extracomunitari, bisogna votare 'Sì'. Se si è contrari, bisogna votare 'Nò. Con il 'Sì', infatti, si cancellano due punti dell’articolo 9 della legge n. 91 del 1992, portando così al requisito dei cinque anni di residenza per chiedere la cittadinanza. Chi sostiene il 'Sì' ritiene che l'attuale legge sia sproporzionata e discriminatoria, perché richiede agli adulti extracomunitari il doppio degli anni di residenza rispetto alle regole in vigore prima del 1992. Il requisito dei 10 anni, secondo i promotori del referendum, non rispecchia la realtà di molti stranieri che vivono stabilmente in Italia e rischia di escludere anche i loro figli minori. Abbreviare i tempi a 5 anni, senza toccare gli altri criteri, come il reddito e la conoscenza della lingua, semplificherebbe un percorso oggi ostacolato dalla burocrazia avvicinando l'Italia agli standard di altri Paesi europei. Chi sostiene le ragioni del 'Nò ritiene invece che la legge attuale sia già adeguata e che l’Italia rilasci un numero troppo alto di cittadinanze rispetto ad altri Paesi.
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