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cucina

Non solo la «Puttanesca», «volgarità» a tavola: quelle ricette spinte

Non solo la «Puttanesca»: «volgarità» a tavola

di Chichibìo

11 Settembre 2025, 12:16

Di certo sarà difficile trovarle nei ricettari di casa, quelli custoditi e tramandati per generazioni e su cui hanno vegliato cucinato nonne, madri e zie sempre attente e, quasi sempre, morigerate. E neppure nei ricettari più famosi, quelli che, a partire dall’Artusi, stabiliscono il canone della cucina e ne tracciano limiti e confini per quanto concerne gusto e sapore e a volte anche per quanto riguarda il costume e la lingua. O meglio sarà difficile trovarle coi loro nomi espliciti quelle ricette dai titoli sconvenienti o spinti, quando non sconci o volgari: è infatti di queste che si parla. E tuttavia quelle ricette dalla terminologia irriverente sono parte della cultura gastronomica. In genere provengono dalla cucina povera e popolare, ne rappresentano una componente significativa dove la diretta franchezza della lingua, spesso il dialetto, dà conto della quotidianità di quando le classi dominanti non riuscivano, sempre o del tutto, a imporre un controllo moraleggiante o conformistico.
Quei piatti, o meglio i loro nomi, sono atti di ribellione liberatoria che sfuggono ai toni formali, alla censura e si potrebbe dire, scimmiottando un po’ Sigmund Freud, che si tratta di un «ritorno del rimosso», una ricomparsa della sfacciataggine dell’infanzia, quando non si erano ancora interiorizzati i tabù e le parole correvano libere, felici e divertite. Un raid gioioso e, continuando a rifugiarsi nella psicoanalisi, si può azzardare che la parola sconveniente, la parolaccia, altro non è che un atto di godimento (la «joissance» di Jaques Lacan) che irrompe e sfida il linguaggio ordinato e normativo. E allora non c’è volgarità in questo che diventa quasi un atto simbolico spesso condito, siamo in tema, con ironia e sottile derisione.
Quando, per esempio, ordiniamo «pisarei e fasò» non pensiamo certo al «pisarell» e al richiamo fallico cui questi gnocchetti di pane della tradizione piacentina alludono e portano con sé, tanta è la bontà del piatto -mentre i fagioli altro non sono che un dolce legume (nota di servizio: se potete, utilizzate i fagioli dell’occhio e tenete il tutto leggermente brodoso, tanto da richiedere l’uso del cucchiaio, come vuole la versione più tradizionale). Non si può invece sfuggire a un sorriso con gli spaghetti «alla puttanesca» che hanno origine negli anni ‘50 e per luogo di nascita l’isola d’Ischia. Si dice che Sandro Petti, ma anche lo zio Eduardo Colucci ne rivendica la paternità, al suo piano bar «Rangio Fellone» si trovò di fronte a un gruppo di clienti affamati: era notte inoltrata e in cucina non c’era più niente. «Facci una puttanata qualsiasi», insistettero quelli, e allora spaghetti con olive, capperi, aglio, acciughe, pomodoro, peperoncino, prezzemolo... ed era nata «la puttanesca» che ebbe subito successo e valse a Petti la reprimenda del Vescovo per la denominazione indecente. Il piatto è ora codificato nelle «Ricette regionali italiane» di Anna Gosetti della Salda che raccomanda olive nere di Gaeta snocciolate, acciughe e capperi dissalati.
E’ invece una specialità storica di Sanremo, ancora secondo Gosetti, lo stoccafisso «Brand de cujun»: crema di stoccafisso e patate lessate con aglio, prezzemolo e olio a lungo sbattuto (brandare) per amalgamare il tutto: l’operazione, non proprio entusiasmante, veniva affidata al ‘cujon’ di casa e da qui il nome. Oppure pare che il compito fosse affidato al capofamiglia che, seduto e con la pentola tra le gambe, sbatteva il tutto spesso sfiorando così le sue parti intime. Più brutalmente e senza ipocrisie la Mortadella di Campotosto, salume abruzzese dalle antichissime origini e venduto anche a coppie, è chiamato, per la forma particolare e esplicita, «Coglioni di mulo». Sono invece un piatto di strada, dalla forma palese e allungata, i «Cazzilli palermitani», irresistibili crocchette fritte di patate e prezzemolo. Sempre alla stessa area semantica appartiene il «Cazzimperio», antichissima ricetta romana del pinzimonio di verdure la cui etimologia rimanda principalmente alla «cazza» (mestolo) usata per mescolare, ma anche alle presunte virtù afrodisiache di quelle verdure e condimenti. Infine, ma gli esempi sono ancora molto numerosi, si chiuda con le «Minne di Sant’Agata», dolce identitario di Catania. Sono cassatine a forma di cupola ricoperte da una glassa bianca con in punta una ciliegia rossa: le facevano le suore di clausura in ricordo del martirio che subì la Santa col taglio dei seni. In un quadro di Francisco Zurbaràn è la Santa stessa che ce le mostra su un vassoio.

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