Generazione bit
Oltre a essere una delle major del digital entertainment più attive sul fronte delle produzioni nipponiche, Bandai Namco ha da tempo avviato una serie di collaborazioni internazionali che hanno aiutato molti cult a raggiungere il grande pubblico, a cominciare dalla saga di The Witcher firmata dai polacchi Cd Projekt, fino al caso più recente della hit Clair Obscur: Expedition 33, realizzata dallo studio francese Sandfall con il sostegno dell’editore Kepler Interactive. Sono però senza dubbio i titoli della casa giapponese FromSoftware a rappresentare oggi il fiore all’occhiello del ricco catalogo di Bandai Namco, che ha scoperto nel genio di Hidetaka Miyazaki un autore di punta per l’odierno digital entertainment. Di successo in successo, si è arrivati nel 2022 al fenomeno Elden Ring, bestseller assoluto che evolve i concetti tra gioco di ruolo e azione già portati avanti tramite l’influente trilogia dei Dark Souls, paradigma per un intero filone ormai piuttosto in voga, ma che nessuno è riuscito a replicare con la stessa maestria. Mentre Miyazaki lavora al prossimo progetto, The Duskbloods, che avrà un’anima multiplayer e sarà un’esclusiva per Nintendo Switch 2, proprio l’ambientazione di Elden Ring concede l’occasione per le prove generali di questo ulteriore step dei Souls verso una dimensione sempre più online, che a vari livelli li ha comunque caratterizzati sin dalle origini. Elden Ring Nightreign è tuttavia il primo esperimento compiutamente multiplayer, nello specifico di tipo co-op. Una compagnia di tre avventurieri si trova a collaborare unendo le forze per affrontare le sfide che, di volta in volta, all’interno di una mappa mutevole nella quale si incastrano tanto elementi roguelike quanto battle royale, conducono di fronte a uno degli otto diversi e potentissimi boss finali. Ciascuna partita è pensata per durare circa un’ora e per spingere i giocatori a ricercare le migliori sinergie tra i numerosi archetipi attorno cui è possibile sviluppare nei minimi dettagli il proprio personaggio, la specialità di FromSoftware che in Nightreign rielabora l’affascinante estetica fantasy di Elden Ring, altro piatto forte che la software house di Miyazaki cura maniacalmente. In realtà, sulla carta, Elden Ring Nightreign si potrebbe completare anche da soli, persino offline, ma si tratta di un’impresa quasi impossibile per come è stato bilanciato almeno all’inizio il gioco. In tal senso il team ha inserito già alcuni palliativi e ha in programma di correggere cammin facendo altre criticità, riguardanti sia l’esperienza in single player che il matchmaking online.
Un Medioevo pieno di magia e di violenza, dove persone come tutte le gli altre sono costrette a prendere le armi e a comportarsi da eroi, anche se Aran de Lira, il protagonista di Blades of Fire, la nuova avventura d’azione dello studio spagnolo MercurySteam, tradisce dalla sua scelta di vita un passato non propriamente comune. Ha infatti deciso di ritirarsi da tutti, come un eremita, per motivi che si chiariranno in seguito. Primogenito del comandante della guardia reale, Aran viene richiamato dall’esilio volontario per combattere la regina Nerea, artefice di un pericoloso sortilegio capace di trasformare in pietra l’acciaio, un tempo donato dai mitici giganti Forgiatori agli uomini, affinché riuscissero a farsi strada nel mondo. È dunque una sfida per la sopravvivenza dell’umanità quella adottata dal guerriero, affiancato nell’impresa dal giovane Adso, chiamato come il novizio aiutante di Guglielmo di Baskerville del Nome della rosa di Umberto Eco, uno dei molteplici riferimenti utilizzati dagli autori per creare un’ambientazione vastissima, modellata sul ricordo di film come il fantasy Dark Crystal (1982) di Jim Henson e Frank Oz, l’arturiano Excalibur (1981) di John Boorman, il romantico Ladyhawke (1985), girato anche al castello di Torrechiara (l’ingresso e il cortile della prigione di Aguillon) e nel borgo di Castellarquato, mentre per la colonna sonora il compositore Oscar Araujo ha citato tra i motivi ispiratori le musiche di Conan il barbaro. L’esplorazione è parte integrante dell’esperienza che si compie insieme ai personaggi, apprendendo man mano insieme a loro i reali contorni dell’impresa. Ad Aran viene chiesto di diventare un Maestro forgiatore, investito dell’onore e dell’onere di impugnare uno dei sette martelli dei Forgiatori, sotto la guida della Maestra forgiatrice Glinda. La fucina è un luogo chiave, perché qui Aran può progettare e personalizzare le armi di cui disporre, selezionando tra diverse tipologie e influenzando così, con le sue decisioni, lo stile del combattimento e l’esito degli scontri in quanto certi strumenti si rivelano più efficaci di altri in determinate situazioni. Se si commettono errori, si rifonde la billetta col calore del forno e si ricomincia a forgiare col maglio il pezzo di metallo incandescente, tenendo conto che il numero di colpi è limitato e vanno quindi dosati a dovere. C’è poi il fattore della qualità dell’acciaio di partenza, la cui formula può essere arricchita dai materiali reperiti sul terreno nel corso delle missioni. Insomma, nel laboratorio si torna sempre più attrezzati e consapevoli di quanto sia strategica quest’attività. Come nell’epica cavalleresca, dalla Durlindana di Orlando all’Excalibur di Re Artù, alla fine si attribuisce alle armi realizzate un nome, prima di usarla per sferrare gli attacchi. La varietà non si limita a questi ultimi, la stessa difesa può giostrarsi su una vasto dispiegamento di parate, con cui schivare i fendenti e recuperare energie.
Il rilancio di Konami, lo storico editore di Silent Hill e Metal Gear, passa anche per una rinnovata passione per gli indie. Piccole produzioni capaci di fare breccia sul pubblico e di sorprendere, come Deliver At All Costs, debutto sfolgorante dello studio svedese Far Out. Essenzialmente un titolo di guida, ma originalissimo e che reinterpreta alla sua maniera una sfilza di classici, creando poi il proprio mix di retrogusto arcade. Dagli anni ‘80 di Super Off Road al mitico Crazy Taxi, dal thriller a quattro ruote Driver fino al filone dei vecchi Grand Theft Auto, quelli degli anni ‘90 con la visuale dall’alto oggi in pieno revival e la stessa chiave nella quale è costruito il folle universo di Deliver At All Costs, viaggio allucinato in una versione alternativa degli Usa degli anni ‘50 dove ci si arrabatta al volante come corriere, alle prese con ogni tipo di incarico, soprattutto fuori di testa. A un certo punto bisogna indagare persino sui rapimenti di mucche da parte degli alieni, vedendosela faccia a faccia con gli Ufo, in un episodio che descrive bene il tono del progetto, che dal solco dei Gta – e in perfetto spirito nordeuropeo - riprende anche l’idea di humour slapstick, quasi una parodia. In realtà dietro l’atmosfera leggera da commedia si nasconde una trama più elaborata, che si svela poco a poco. Rappresenta un’altra unicità di un videogame che ha stile da vendere e che risulta stupefacente pure sul versante tecnico. Per gli sviluppatori una sorta di manifesto ricco di sfide. Sembra di muoversi in un dettagliatissimo diorama allestito con cura dove tutto è distruttibile e segue le leggi di una precisa fisica, espressamente esagerata, collaborando alla messinscena pirotecnica che si trova al centro dello spettacolare digital entertainment di Deliver At All Costs. Le situazioni assurde fanno il resto, tanto quelle preprogrammate quanto quelle emergenti dalla struttura naturalmente interagibile gioco, stampando spesso e volentieri il sorriso sul volto.
Quando la conservazione biologica e la pianificazione ecologica di un territorio falliscono e ci si trova di fronte un ambiente degradato, ecco che la via giusta per la sua rinascita, seppur non sempre facile poiché non tutto è reversibile, può passare per la rinaturazione, affidando dunque principalmente alla vegetazione il compito di ristabilire gli equilibri perduti. È un concetto importante anche nelle dinamiche di Synergy, il city-builder dello studio francese Leikir, dove occorre costruire un insediamento, attirare lavoratori, ottimizzare l’uso delle risorse come nei tipici giochi di questo genere, però con un’anima improntata alla stretta relazione tra gli organismi viventi e l’ambiente circostante. Bisogna, in altre parole, tener conto dell’ecosistema nel suo complesso, cercando di capirne il funzionamento, attraverso l’analisi delle diverse specie incontrate, arricchendo con le informazioni raccolte il Libro delle Conoscenze, e mettendo in atto strategie di adattamento. Aumentare il sapere, anche attraverso l’esplorazione di altre regioni e la promozione di ricerche scientifiche, è fondamentale per progredire, superando eventuali condizioni climatiche sfavorevoli. L’atmosfera è resa quasi onirica dalle scelte stilistiche di una direzione artistica dichiaratamente ispirata alla produzione fantascientifica e surreale di Jean Giraud, alias Moebius, e rielaborata anche alla luce della blasonata scuola franco-belga della bande desinée, accanto alle suggestioni arrivate dal cinema sci-fi degli anni Settanta-Ottanta. Il risultato è una raffigurazione - disegnata a mano - ipnotica, dotata di forte magnetismo, che riesce a delineare scenari a un tempo splendidi e decadenti, nei quali lo sguardo si perde affascinato, ma che si alternano a porzioni sconvolte e deturpate dagli eventi. In ogni caso il ritmo procede concentrato, ma non concitato, con l’ulteriore opportunità di scegliere in qualsiasi momento una modalità che, sia pure a scapito del punteggio, permette di adottare un approccio più semplice e rilassato.
Non più diretto all’inferno come in Monster Train, uno dei deckbuilder roguelike più di successo di sempre: nel sequel Monster Train 2 il treno viaggia in direzione del paradiso, sotto occupazione dei malvagi Titani, tanto che, per liberarsene, gli angeli hanno deciso di venire a patto con i demoni, unendo le forze per sfrattare gli ingombranti invasori. Gli sviluppatori di Shiny Shoes sono riusciti a confezionare un seguito fedele all’originale, ma anche profondamente rinnovato, per la gioia dei fan vecchi e nuovi. Non è necessario aver giocato al titolo precedente, ma i veterani troveranno comunque in Monster Train 2 allusioni e riferimenti tali da arricchire l’esperienza, comunque assolutamente godibile anche per chi non conoscesse o non fosse intenzionato a recuperare il pluripremiato Monster Train. La struttura verticale a tre livelli è mantenuta e, mentre da una parte si devono affrontare i nemici, dall’altra non si può non proteggere il Pyre, ossia la pira infuocata che costituisce l’estrema linea di difesa: se le fiamme si spengono, termina la partita. È stata inoltre introdotta la modalità Endless, per continuare a lottare dopo una vittoria fino alla sconfitta. Del resto, la rigiocabilità è un’altra delle frecce nell’arco di Monster Train e, ancor di più, di Monster Train 2. Pur essendo in generale determinante il fattore della casualità, altrettanto fondamentale è costruire strategicamente il mazzo di carte, sbloccandole e combinandole con interessanti new entry, sotto l’aspetto dei potenziamenti. Gli autori si sono poi sbizzarriti, con cura, fantasia e ironia, nella creazione di cinque clan inediti di mostri, che vanno ad aggiungersi a quelli del passato. Ciascuno è dotato di dinamiche uniche, che influenzano a loro volta l’impostazione data ai combattimenti. Banished raccoglie angeli caduti dotati di pesanti equipaggiamenti. Gli avidi Pyreborne sono straordinari accumulatori di tesori. Il gruppo dei Luna Coven utilizza il potere della luna per avere meglio sulla corruzione del male, alla ricerca di un equilibrio tra luce e tenebra. Gli Underlegion invitano a incarnarsi nel ciclo di vita dei funghi, che favoriscono la decomposizione, per alimentare quindi la crescita, in una ripetizione perenne, dove i poteri essenziali si nascondono sotto la superficie, invisibili agli occhi ma letali. Infine gli scienziati pazzi della Lazarus League confezionano pozioni micidiali, con un’infinita voglia di sperimentare, capeggiati da una sorta di dottor Victor Frankenstein, modellato però più sul nipote Frederick del film di Mel Brooks, a suo agio in una galleria alimentata dall’immaginario horror letterario e cinematografico, con assistenti che reinterpretano liberamente (e grottescamente) personaggi come Edward Mani di Forbice o Zaphod Beeblebrox, l’eccentrico ex Presidente della Galassia, con le sue due teste, già portato sul piccolo schermo nell’adattamento della Bbc del cult Guida galattica per autostoppisti.
I misteri di un’antica civiltà perduta tenuti a bada da quelli che erano docili servitori meccanici trasformati in agguerriti automi nel cuore di un’architettura gigantesca e labirintica, il Monolite o Ziggurat: Empyreal, sviluppato da Silent Games, studio indie inglese di Newcastle Upon Tyne, è un gioco di ruolo d’azione fantascientifico. L’ambientazione principale si ispira ai megaliti che esistono nella realtà, affondano le radici nella preistoria e custodiscono tuttora molti segreti, dai motivi per i quali sono state erette queste strutture ciclopiche alle ipotesi sulle tecniche utilizzate per costruirle. Nelle isole britanniche, dove i cerchi di Stonehenge offrono una delle più famose creazioni risalenti al Neolitico, sarebbe nato lo stesso termine megalite, coniato nel 1849 dall’antiquario Algernon Herbert. Nella finzione di Empyreal l’enorme edificio accoglie quattro biomi principali, chiamati Quadranti, ciascuno modellato in modo da evocare gli ideali dei rispettivi fondatori, ossia i temibili Guardiani. La sezione improntata alla religione è dominata da alte scaffalature, un intricato susseguirsi di corridoi, passaggi nella penombra e stanze nascoste, che richiamano quelle città nelle città che erano i monasteri, però in una commistione che coinvolge templi e obelischi. Paesaggi luminosi, quasi metafisici, animati da dune di sabbia mosse dal vento, favoriscono invece nel livello successivo l’apertura e la liberazione della mente, che può librarsi leggera, riscaldata e rinfrancata dal sole, in una rielaborazione dell’immaginario di acropoli e architetture germogliate in simbiosi sulle pareti di roccia. Il terzo bioma è un inno all’arte e alla creatività, rispecchiate nella bellezza di edifici e sculture improntati alla classicità, costretti però a cedere a tratti il passo all’irrompere della natura e ridotti allo stato di rovine, sotto l’azione di forze arcane. L’approdo sono orizzonti di silenzio cosmico ed esistenziale, attanagliati dal senso incombente dell’avvicinarsi di una tragedia. Gli autori hanno spiegato di aver attinto a molteplici suggestioni, dal cristianesimo alla letteratura inglese, dagli echi della storia alle teorie dello gnosticismo, con l’obiettivo di conferire spessore e profondità al videogame. Empyreal introduce anche una sorta di modalità cooperativa, attraverso lo scambio di oggetti e, in particolare, di Cartogrammi, ossia reperti di un remoto passato dotati della facoltà di consentire il teletrasporto che possono essere condivisi con altri giocatori. Il videogame è all’insegna della personalizzazione, fin dalla scelta del protagonista, un mercenario d’élite, l’unico in grado di penetrare all’interno del Monolite, dopo il fallimento di varie spedizioni inviate su questo lontano pianeta. Le stesse armi - spada, cannone o mazza e scudo - si adattano allo stile dei combattimenti, con una serie di abilità specifiche per ciascuna, più tante altre applicabili a tutte e tre procedendo nell’esplorazione.
Una bambina resa ancor più vulnerabile dalla disabilità che le impedisce di vedere. Sola, con l’unica compagnia di un orsacchiotto, Teddy, in una casa inquietante dove sembra essere tenuta prigioniera. L’horror degli svedesi The Gang è reale e psicologico, in una situazione di totale incertezza dove la piccola Sophie comprende comunque che la sua unica possibilità di salvezza sta nell’allontanarsi da quell’edificio che proprio vuoto non è. C’è la voce fredda e severa di una donna che, quando capisce le intenzioni della bambina, chiama a raccolta chi può fermarla e ricondurla tra le quattro mura della camera, mentre si evocano non precisati rituali. Sophie ha in Teddy non solo un amico immaginario, ma uno strumento fattivo per guadagnare la via di fuga: scopre di poter guardare attraverso gli occhi del pupazzo. Se però deve spostare un oggetto, aprire un’anta o ricavare un passaggio ruotando superfici, è obbligata ad appoggiare Teddy, oltretutto in una posizione comoda per l’orsacchiotto segnalata da una coperta rosa. Subito dopo, lo riprende tra le braccia per proseguire nel tentativo di evasione da un luogo labirintico, buio, spettrale, infarcito di trappole. Si alternano così efficacemente e agevolmente le visuali in prima e in seconda persona, con le quali seguire i passi della bambina costretta a non farsi sentire per eludere i carcerieri e d’altra parte ad aguzzare l’udito per captare i rumori delle presenze poco rassicuranti all’interno della magione. Come è capitata lì? Chi la insegue? Da quando ha perso la vista? Spesso procedendo a carponi, Sophie si infila nei cunicoli tra le pareti e sotto i solai, mentre attorno a lei si svelano gli ambienti color pastello dell’abitazione, dove non mancano sparsi qua e là giocattoli, ma negli angoli in ombra ecco comparire oggetti angoscianti, come catene, gabbie e ceppi, e i quadri appesi hanno il soggetto ricorrente di bambini senza occhi. Spie eloquenti dei sinistri piani degli adulti che si aggirano lì, magari intenti a intonare su note suadenti una ninna nanna, però non ci si deve lasciare facilmente ingannare, di fronte a un orrore che si palesa a poco a poco, disponendo sul piatto i topoi della casa stregata, dei bimbi fantasma, della psicocinesi, per raccontare una cupa favola moderna, dove la narrazione è affidata soprattutto all’intensa atmosfera.
Dopo le evoluzione acrobatiche, con ampio uso del rallentatore, del sicario agli ordini di una banana senziente nell’action shooter My Friend Pedro, titolo di debutto di DeadToast Entertainment, la software house indipendente formata in pratica unicamente dal suo fondatore, lo svedese Victor Agren, torna a mettere in campo una sfida impegnativa, condita da larghe dosi di umorismo, nel platformer di precisione Shotgun Cop Man, dove il protagonista, un poliziotto soprannominato Shotty, ha da compiere nientemeno che la missione di arrestare Satana. Gli toccherà dunque scendere negli inferi, popolati da agguerriti demoni. Agli antefatti è dedicato un breve documentario disponibile sul sito ufficiale del gioco e su YouTube per spiegare i motivi della determinazione di Shotty: Lucifero era stato nientemeno che il fidanzatino della sua futura moglie alle scuole superiori e, a distanza di anni, tra i due c’era stato un ritorno di fiamma. Dietro il mandato di arresto ci sarebbe comunque ben altro. Sia come sia, ormai il gelosissimo Shotty è in ballo e gli spetta affrontare un labirinto disegnato in una minimalistica pixel art, pieno di nemici e di trappole, articolato in oltre 150 livelli, cui si aggiungono le campagne create dal giocatore o dagli altri utenti con l’apposito editor. Sono soprattutto i temibili boss a richiedere un dispendio di ingegno e di energie, con il protagonista che combatte disponendo di un efficace arsenale, tra fucili a pompa (shotgun), pistole e armi esplosive, impugnate due alla volta. A ogni colpo del fucile a pompa il personaggio si ritrova proiettato in aria, così da avanzare e allo stesso tempo provare a schivare le insidie, in un fluire dinamico dell’azione, che richiede movimenti calibrati e attenzione, riportando poi i piedi a terra per ripartire (e riuscire a ricaricarsi delle munizioni). Per procedere, al di là delle barriere costituite da pericoli mortali come lame rotanti o raggi laser, si devono anche risolvere enigmi, di solito piuttosto intuitivi, per scovare la via, azionando interruttori, leve o eliminando masse rocciose. Il ritmo rimane elevato, si muove e si rinasce riagguantando il cuore perduto, con un rigiocabilità potenzialmente infinita, perché non ci sono gradi diversi di difficoltà, ma chi termina un livello dimostrando la sua abilità ottiene la remunerazione di premi extra.
È dal 2011 che il gruppo di Youtuber neozelandesi VLDL si diverte a prendere di mira i videogame, specialmente i giochi di ruolo fantasy D&D e i multigiocatore online di massa Mmorpg, inventando parodie apprezzate da una platea di più di sette milioni di iscritti al canale Viva La Dirt League. Nel 2021 un personaggio non giocante (NPC) dei loro sketch umoristici, il pescatore Baelin, è diventato protagonista del cortometraggio Baelin's Route: An Epic NPC Man Adventure, nel quale suo malgrado, a causa dell’intervento di un giocatore in carne e ossa, si trovava a indossare i panni dell’eroe di turno, chiamato a intraprendere direttamente l’azione per salvare la damigella in pericolo. In un ulteriore rimescolamento delle carte e di ribaltamento dei ruoli, il colmo per Baelin è che adesso ha addirittura debuttato in un videogame tutto suo, Nice Day for Fishing, il primo di Viva La Dirt League, realizzato con lo studio tedesco FusionPlay. Così dopo essersi divertiti per anni a ironizzare su titoli e generi, ecco he i comici kiwi hanno compiuto il salto della staccionata, senza però abbandonare la vena umoristica loro più congeniale. Nice Day for Fishing segna anche il loro ingresso di gran carriera in un ambito che conta molti aficionados, quello dei giochi di pesca, naturalmente offrendo una personale lettura del genere. E deve ancora una volta pensare a tutto il povero Baelin, salutando il tranquillo trantran quotidiano per gettarsi nella mischia e caricarsi sulle spalle ogni sorta di incombenza. Siamo nel mondo medievale di Azerim, dove sorge la cittadina senza tante pretese di Honeywood, tipico teatro delle incursioni di Viva La Dirt League. A Honeywood abitano vari NPC, tra cui il nostro Baelin. Fedeli alla loro più intima essenza, affidano ad avventurieri di passaggio le quest da portare a termine. Un evento drammatico provoca però la sparizione di ogni avventuriero e a Baelin tocca essere riprogrammato per sostituirli, compiere le imprese e migliorare le sue capacità. Al fianco ha i suoi sodali NPC, anche se on proprio attivi, però prodighi di consigli e, all’occorrenza, disposti a mettere a disposizione le loro abilità. I fan di Viva La Dirt League riconosceranno tante situazioni familiari, comunque spassose anche per i neofiti, mentre Baelin esplora, getta l’amo, prova a fare ordine e a recuperare risorse, ossia pesci e tesori finiti in fondo al mare, accompagnando in un viaggio dal sapore d’antan, riecheggiato nella pixel art e nello stile rétro del videogame.
Scavate nella roccia vulcanica della Cappadocia, fino all’esteso diramarsi della città di Derinkuyu, collegata da 9 chilometri di tunnel all’altrettanto antico insediamento di Kaymakli, o sviluppate su più livelli come nell’intricato dedalo della sassanide Nushabad in Iran, nel deserto sono fiorite incredibili città sotterranee, al riparo dall’arsura soffocante diurna e dalla forte escursione termica notturna. Non dalle fosche trame alimentate, ci ricorda The Siege and the Sandfox, dalla sete di potere. Nel videogame, ispirato alle architetture di civiltà diverse trasferite in un’ambientazione ctonia, un esercito nemico arriva a cingere d’assedio la capitale del regno, il re viene assassinato a tradimento nella cerchia di chi doveva essergli fedele, l’unico testimone del delitto è accusato ingiustamente, ferito in modo grave e gettato in un pozzo collegato con terribili prigioni ipogee. Da qui la leggendaria Volpe del deserto deve partire alla riscossa, per tentare di salvare sé e i concittadini da un destino segnato, nel titolo di debutto della casa inglese Cardboard Sword, The Siege and the Sandfox, che introduce una sua personale lettura del genere metroidvania, ribattezzato per l’occasione stealthvania. Se le segrete pullulano di nemici, il protagonista non combatte per uccidere, piuttosto utilizza tecniche elusive, nascondendosi alla vista o al massimo attaccando di spalle per tramortire, mentre si arrampica, salta, si aggrappa, corre quasi fosse un novello Principe di Persia dedito al parkour, ingaggiando una lotta contro il tempo. Citazioni dirette si colgono nella tipologia delle finestre e nei corridoi illuminati dalle torce. L’effetto nostalgia è del resto nelle corde degli autori, già dalla scelta di adottare il 2D e la grafica in pixel art tutta accuratamente dipinta a mano e animata fotogramma per fotogramma, nella risoluzione a 16-bit, quella delle avventure esotiche di Indiana Jones e di Uncharted. Per sventare la congiura non basteranno le doti eccezionali della Volpe. Occorrerà comunque riuscire a scovare alleati su cui contare.
Un medioevo di fantasia, cupo e malinconico, dove una guerriera, Mirah, a stento sopravvissuta con i suoi cari, si trova a fronteggiare ondate di orde di mostri sempre più numerose, in una lotta per il futuro non solo di sé, ma di un intero mondo. Con Hordes of Hunger lo studio polacco Hyperstrange - salito alla ribalta con il metal action fantasy slasher Elderborn, successo confermato dal city builder di ambientazione norrena Frozenheim, ma soprattutto con il first person shooter horror dalle dinamiche stealth Blood West - si inoltra sul terreno di un survival action 3D con elementi roguelike, dove si combatte a colpi di armi, da forgiare anche direttamente man mano che si sale di livello, e di incantesimi, da apprendere e potenziare, mentre si avanza nel tentativo di scoprire l’origine di un male così devastante. Uscito in accesso anticipato, Hordes of Hunger proietta in un’azione frenetica, senza pause, impegnati nell’impresa di sconfiggere un’oscura maledizione che ha stravolto persone e luoghi, recupera do frammenti di conoscenza dai pochi superstiti incontrati in questo viaggio tra città e villaggi fascinosamente ricostruiti, pur avvolti in un’atmosfera buia e pericolosa, fertile teatro per l’annidarsi di creature spaventose. Dopo aver sconfitto un certo numero di nemici, si viene ricompensati con l’opportunità di scegliere una carta su tre, ciascuna associata a un diverso potere, combinando un’ampia gamma di abilità e migliorando gli attacchi di missione in missione, liberando altri infelici inghiottiti dalle spire della piaga diffusa dall’antagonista finale, al quale Mirah si avvicina progressivamente, potendo contare sull’aiuto di uno sparuto, ma provvidenziale, gruppo di personaggi in cui ci si imbatte lungo la via.
In occasione dell’ormai tradizionale appuntamento con lo Steam Next Fest, sulla celebre piattaforma di distribuzione digitale dedicata al Pc Gaming è possibile provare le versioni dimostrativi, scaricabili gratuitamente, di molti titoli interessanti in uscita. Tra questi spicca, fin dalle raffinate scelte estetiche, il metroidvania Mio: Memories in Orbit dello studio francese Douze Dixièmes. Un team non a caso affascinato sia dai videogame che dall’animazione. Due passioni che già si erano intrecciate nei disegni acquarellati di Shady Part of Me, viaggio poetico e surreale di una bimba in compagnia della sua ombra, intessuto di rimandi artistici, segnatamente le geometrie impossibili di Escher. Con Mio: Memories in Orbit si entra in una labirintica astronave, vera e propria arca tecnologica, il Vascello, alla deriva nello spazio da chissà quanti anni e il cui cuore si sta spegnendo. Spetta a un adorabile robottino, umile e indifeso, privo di memoria in seguito a un incidente, provare a salvare la situazione, cominciando a tentare di capire cosa sia successo a chi si trovava lì e sembra essere stato inghiottito nel nulla. Il senso di mistero alimenta l’esplorazione in un susseguirsi di ambientazioni dall’intensa personalità, dove l’occhio si perde, ma il robottino deve rimanere focalizzato sulla sua non facile missione, con l’obiettivo ultimo di individuare un eventuale nuovo pianeta dove fermarsi e ricominciare a vivere. Dai maestri della bande dessinée ai videogame della giapponese From Software o all’action adventure canadese Tunic fino al romanzo Hyperion sono molteplici i riferimenti tenuti in considerazione dagli sviluppatori per restituire le atmosfere d’incanto di una fantascienza dove complesse strutture tecnologiche si alternano a scenari di natura lussureggiante. Il contrasto tra umano e artificiale è ulteriormente sottolineato dalla colonna sonora, che unisce la voce di una formazione corale, registrata dal vivo a Parigi, e suoni sintetizzati lo-fi.
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