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Generazione bit. Un tuffo negli anni ‘90: Sonic e le mascotte, i Digimon, il Game Boy tra i revival dei classici giochi arcade. Corse, platform, picchiaduro, sparatutto

ONLINE. Generazione bit. Un tuffo negli anni ‘90: Sonic e le mascotte, i Digimon, il Game Boy tra i revival dei classici giochi arcade. Corse, platform, picchiaduro, sparatutto

di Riccardo Anselmi

14 Ottobre 2025, 11:35

SONIC RACING: CROSSWORLDS (Sega, per Pc e console)


Non uno, ma tanti grandi revival. Sonic Racing: CrossWorlds è il capolavoro di Sega che i fan stavano aspettando. Perché aggiunge una buona dose di competizione nel genere tra corse e party game capitanato a lungo da Mario Kart, che attorno a sé sembrava ormai aver fatto terra bruciata. E, si sa, nei videogiochi un po’ di sana competizione contribuisce al bene di tutti. Invece siamo come ricatapultati a quegli anni magici in cui le case si sfidavano senza timore e ciascuno poteva avanzare le proprie preferenze. Gli stessi quando su Playstation nasceva l’alfiere Crash Team Racing, non a caso anch’esso recuperato non troppo tempo fa con un remake. Le mascotte sono morte, viva le mascotte! In Sonic Racing: CrossWorlds c’è però molto di più di una collezione di personaggi iconici. Raccoglie in senso più profondo l’eredità di Sega, una compagnia che ha scritto la storia dei videogame in epoche nelle quali il digital entertainment non era necessariamente espressione delle console. Il suo valore aggiunto risiede nello stretto legame con quella tradizione arcade che appartiene al dna di Sega, che dal Giappone al resto del mondo ha dominato la scena delle sale giochi definendo i caratteri di una delle correnti più ammirate del divertimento elettronico grazie a indimenticabili coin-op, a cominciare da OutRun, poi Virtua Racing e ancora Sega Rally, Daytona Usa, Scud Race, passando per Crazy Taxi e Initial D. Un tipo di esperienze che si riaffaccia magistralmente in Sonic Racing: CrossWorlds, il miglior gioco di corse arcade che porta lo spirito dei classici mangiamonetine nella nuova generazione. Pare quasi di trovarsi in un paese del balocchi dove sotto l’ombrello di Sonic, il porcospino blu diventato simbolo di Sega, vengono recuperati gli insegnamenti delle leggendarie divisioni Amusement Machine Research & Development dell’azienda nipponica, i vari AM1, AM2, AM3 all’origine di una sfilza interminabile di cult, fino all’ultima Amusement Vision dietro F-Zero GX, altra pietra miliare che qua e là fa capolino nelle piste ottovolanti di Sonic Racing: CrossWorlds. Per l’occasione Sega riprende in mano il testimone dallo studio inglese Sumo Digital - responsabile dei precedenti Sonic & Sega All-Stars Racing (2010), Sonic & All-Stars Racing Transformed (2012) e Team Sonic Racing (2019) – mettendo alle redini del progetto una squadra dei sogni squisitamente giapponese che inietta nel Sonic Team forze provenienti dallo sviluppo dei mitici cabinati, chiamati a dare una vera impronta arcade all’opera. La si coglie in un’infinità di dettagli, ma subito non appena si stringe il joypad in pugno che è un piacere e si comincia a correre saltando, derapando, colpendosi tra power up e sportellate in mezzo a un’esplosione di colori vivaci. Sega non ha perso il suo tocco, la festa gioiosa di un digital entertainment visto con gli occhi pieni di meraviglia dei bambini. Una partita tira l’altra, anche in single player per il quale è stato approntato un interessante sistema di rivalità con i piloti gestiti dal computer e di ricompense, inserite in un contesto ricco di elementi da sbloccare e personalizzazioni, per cui ci si sente sempre gratificati. Nonostante andare davvero veloce e dominare, oltre alle gare, le classifiche online sia un’altra cosa. Serve padronanza assoluto dei circuiti e una conoscenza perfetta dei tracciati, disegnati minuziosamente all’insegna delle strade alternative, dei bonus e delle scorciatoie, mentre un attimo prima si sgomma sulle minicar, dopo ci si libra in cielo all’interno di sezioni volanti e ci si tuffa per sfrecciare in acqua sulle onde. Rappresenta una parte del concetto di CrossWorlds, il viaggio interdimensionale alla base del gioco del Sonic Team in cui si esplora parallelamente l’idea di crossover, celebrando nel titolo diverse serie, non solo di Sega (è appena arrivato il dlc di Minecraft, si attendono Pac-Man, Mega Man e altri, ci sono le collaborazioni con i cartoni animati, come SpongeBob), che prestano i relativi protagonisti pronti a scendere in piste a propria volta ispirate magnificamente agli immaginari dei rispettivi videogame capaci di nascondere citazioni colte in ogni angolo, come se si stesse attraversando a tutta birra un incredibile museo virtuale. In grado di restituire brillantemente anche una scuola di pensiero: dove Mario Kart World si evolve abbracciando la formula open world, Sonic Racing: CrossWorlds torna a ribadire la purezza della guida arcade.

DIGIMON STORY: TIME STRANGER (Bandai Namco, per Pc, Ps5 e Xbox Series)


Anime, film, manga e naturalmente videogame: i Digimon, crasi di Digital Monster, le strane creature che abitano in un universo parallelo virtuale generato dai dati provenienti dalle reti di telecomunicazione terrestri, si sono incarnati nei più svariati generi, dando origine, all’interno della serie videoludica Digimon, ai cicli Digimon World e Digimon Story. Quest’ultimo si è adesso arricchito del settimo titolo principale, Digimon Story: Time Stranger, sviluppato da Media.Vision (la casa di Tokyo nota per gli rpg Wild Arms e Chaos Arms) e arrivato a distanza di dieci anni dal precedente, Digimon Story: Cyber Sleuth (2015). Il debutto assoluto dei Digimon nei videogame risale invece alla fine degli anni Novanta e da lì è stato una apoteosi. Ormai può capitare che i team al lavoro appartengano alle generazioni cresciute guardando l’anime in tv, leggendo i manga e giocando con i videogame. È il caso di Hara Ryosuke, produttore di Digimon Story: Time Stranger, che ha così coronato un sogno coltivato da bambino. Se il primo gioco della serie Digimon Story, Digimon Worlds, apparso nel 2006 su Nintendo Ds, era incentrato su come allevare e fare amicizia con i Digimon, pratica ripresa nei titoli successivi, a introdurre una svolta decisiva era stato Digimon Story: Cyber Sleuth, proponendo temi più maturi e conquistando il cuore dei fan degli anime, di cui rivisitava alcune scene iconiche. Approccio mantenuto nel follow-up Digimon Story: Cyber Sleuth – Hacker's Memory (2017), che insieme a Cyber Sleuth aveva consacrato il successo internazionale della serie, sancito da oltre due milioni e mezzo di copie vendute sommando i due titoli. I fili di quella rivoluzione si riannodano in Time Stranger, a suo modo un nuovo inizio per la notevole profondità con la quale affronta i nodi del rapporto tra il nostro mondo e il Digital World, tra i semi piantati nel passato e le loro conseguenze sul futuro. Con Cyber Sleuth ha in comune il character designer Suzuhito Yasuda, il boss designer OH! great e le musiche del compositore Masafumi Takada, a rimarcare una sorta di passaggio di testimone nella continuità. Al centro di Timer Stranger c’è l’amicizia che si instaura tra la misteriosa liceale Inori Misono e l’affidabile Aegiomon, un Digimon dalle molteplici risorse, utili anche nei combattimenti, che sono a turni come nei classici rpg, ma dinamici. A scontrarsi, fianco a fianco con gli umani, sono fino a tre Digimon con le tante combinazioni di attributi (tipo virus, vaccino e altri, per un totale di sette) ed elementi, con Aegiomon pronto a venire in supporto. Inori e Aegiomon collaborano con il protagonista, da scegliere tra Dan Yuki e Kanan Yuki, entrambi agenti dell’organizzazione secreta Adamas che indaga su fenomeni inspiegabili. A seconda che si decide di impersonare lei (Kanan) o lui (Dan), il collega comunque rimane, ma con una funzione di appoggio, non in azione sul campo, piuttosto fornendo consigli dal quartier generale. Le ambientazioni da cui prende avvio la storia sono in una riproduzione fedele del cuore pulsante della capitale nipponica, a Shinjuku, dove avviene l’incontro dell’agente con il piccolo Aegiomon, e nella vivacissima Akibahara, paradiso della tecnologia e della cultura otaku. Nella finzione, Shinjuku è una zona dichiarata interdetta dal governo. Accade una subitanea esplosione e l’agente si risveglia a Iliad, uno dei mondi digitali dell’universo di Digimon regolato dal supercomputer Homerus e gestito dagli Olympos XII, dodici Digimon ispirati agli dei dell’Olimpo, in un ulteriore rimando alla mitologia greca (Iliad è la traduzione in inglese di Iliade) nel disegnare gli scenari di un’epopea che ha attinto anche alle leggende norrene, all’antica Roma, al natio Giappone, mescolando abilmente un’infinità di suggestioni, che conducono a concepire una realtà sfaccettata e dove non sempre tutti sono completamente buoni o completamente cattivi. Gli stessi Digimon sono forse causa delle gravi anomalie, pericolose scintille per l’innesco dell’apocalisse definitiva, ma possono anche essere la cura del male. Il personaggio protagonista riesce a viaggiare avanti e indietro nel tempo, incalzato dalla necessità di impedire la fine del mondo. Intrinseca alla mentalità del Paese del Sol Levante è poi la passione collezionistica che qui si riesce a dispiegare appieno: sono oltre 450 i Digimon, oltretutto potenziabili in varie direzioni e dei quali si possono scoprire lati inediti, in un gioco epico e immenso, in cui si entra intuitivamente, adatto pure ai neofiti che volessero avvicinarsi a questo fascinoso affresco, colmo di vita e di colori, dove imparare ad accettare sé stessi e gli altri nella loro diversità e unicità.

FATAL FURY: CITY OF THE WOLVES (Snk, per Pc, Playstation e Xbox Series)


I fighting game hanno dimostrato di avere più vite dei gatti e rimangano tra le serie ancora in piena attività maggiormente longeve nel digital entertainment. Tutte le più famose hanno saputo in qualche modo reinventarsi, magari nel segno delle correnti recenti, che da una quindicina d’anni, con Street Fighter IV, hanno aperto le porte a una nuova generazione di picchiaduro, dopo l’età dell’oro degli anni ‘90. Fatal Fury era uno dei pochi big a mancare all’appello. Come già fatto per Samurai Shodown e continua a fare con convinzione per la sua saga oggi di riferimento The King of Fighters, Snk alla fine si è convinta e ha rimediato in primavera, consegnando ai fan Fatal Fury: City of the Wolves, il primo capitolo inedito da oltre un quarto di secolo che lo separa dal leggendario Garou: Mark of the Wolves (1999), considerato insieme a Street Fighter III: 3rd Strike di Capcom l’apice dei classici fighting game 2D. L’evoluzione non tradisce le origini e, a dispetto di guest star apparentemente improbabili come Cristiano Ronaldo (CR7) e il disc jockey Salvatore Ganacci trasformate comunque con cura in veri lottatori del roster, Fatal Fury: City of the Wolves mantiene il rigore di un titolo molto tecnico, dagli input fulminei e la vocazione competitiva, rivolto in primis alla scena degli esports tornata assoluta protagonista. Il resto di modalità che gli girano attorno, compreso uno stile di gioco semplificato e il single player venato di elementi rpg, è propedeutico a un’infarinatura generale o come allenamento. Il lancio del videogame ha dato avvio a una prima ondata di contenuti scaricabili e aggiornamenti accompagnata dal relativo season pass il quale aggiunge cinque combattenti al cast principale che a stagione completa, nel 2026, toccherà quota 22 personaggi. Al momento ne sono stati pubblicati tre, Andy Bogard, Ken Masters e Joe Higashi, ma si conoscono anche gli ultimi due, Chun-Li e Mr. Big: tutti volti noti agli appassionati, tra collaborazioni e ospitate, all’insegna dei crossover che da tempo uniscono Snk e Capcom. Joe Higashi è arrivato in City of the Wolves proprio in questi giorni al fianco di una patch che rivede la gestione dei tabelloni e dei match classificati. Campione di muay thai inserito un po’ pure con il ruolo di spalla comica dei fratelli Bogard, è uno dei lottatori storici di Snk, presente fin dal primo Fatal Fury del 1991. Veloce e micidiale specie a distanza ravvicinata, conferma l’attento lavoro di adattamento da vecchie a nuove mosse e animazioni che caratterizzano lo spettacolare revival contemporaneo al centro di Fatal Fury: City of the Wolves

LOST IN RANDOM: THE ETERNAL DIE (Thunderful, per Pc, Ps5, Xbox Series e Switch)


Hanno cambiato nome in Stormteller Games, con un appellativo che unisse le loro origini - a Göteborg, porto industriale svedese con ampie aree dismesse e un clima soggetto a turbolenze eccezionali - e le loro aspirazioni, ossia creare esperienze coinvolgenti basate sul gioco, senza dimenticare il recente passato quando lo studio si chiamava semplicemente Thunderful Gothenburg. A capo di Stormteller c’è un veterano della scena videoludica, Johan Petersson, con un’esperienza ultraventennale nel settore e alle spalle ruoli chiave nel colosso Ea per lo sviluppo di titoli quali Need for Speed, Fifa, Madden e Battlefield. Una premessa per ribadire che dietro Lost in Random: The Eternal Die si ritrova una squadra di lungo corso che ha subito colto nel segno con lo spin-off dell’avventura gotica Lost in Random (2021) di Zoink, la software house poi fusa con Image & Form e Guru Games per creare Thunderful Development, tutte realtà di Göteborg. In verità The Eternal Die è un po’ anche un sequel, in quanto riprende le fila del discorso interrotto con la fine di Lost in Random, mettendo però nei panni di una nuova protagonista, Aleksandra, la regina d Altea, in passato l’antagonista della coraggiosa eroina Even. Si assiste dunque a un drastico cambio di ruoli, ma la rivoluzione più profonda riguarda il gameplay perché, se Lost in Random era un’avventura d’azione dall’intensa impronta narrativa, The Eternal Die fa sua la lezione di Hades trasformandosi in un roguelike estremamente dinamico, dai ritmi serrati, dove i combattimenti in tempo reale si mischiano al sistema di ricompense e rischi legati al lancio di un dado, emblema della forza del caso. Quest’ultimo costituisce un tema centrale in entrambi i titoli, che condividono anche lo stesso universo, ma se in Lost in Random il dado diventa espressione di imprevedibilità, in The Eternal Die è uno strumento da comprendere e utilizzare per coronare positivamente le nostre imprese, migliorando le abilità con il sistema delle reliquie, da posizionare opportunamente abbinandone colori ed effetti in modo da sviluppare sinergie e potenziare l’arsenale a disposizione. Il viaggio di Aleksandra, in cerca di vendetta e di redenzione, in un cupo mondo fantasy dominato dall’enigmatico Dado Nero, procede proprio in compagnia di un dado vivente, l’amica Fortuna, immerse in decadenti atmosfere burtoniane, un’altra eredità di Lost in Random, nato come omaggio alle favole più spaventose e all’animazione in stop-motion, con più di un riferimento visivo ai tabelloni dei giochi da tavolo, ispirazione diretta per le arene dei duelli con i nemici. Innovare nella fedeltà al contesto del titolo originale è stato l’approccio adottato da Stormteller. Non è necessario aver giocato a Lost in Random, anzi si può benissimo cominciare con The Eternal Die e magari, vinti dalla curiosità, decidere di recuperare l’action-adventure precedente in un secondo momento o viceversa. Anche lo spin-off consente di incontrare personaggi interessanti, tra i quali vecchie conoscenze, tutti doppiati. Un cast pittoresco, ben caratterizzato, di cui gli svedesi non avranno difficoltà a ricondurre le radici nella zona della città sulla costa occidentale, famosa in patria per l’attaccamento dei suoi abitanti per i giochi di parole, amatissimi anche nel videogame da un bizzarro mercante d’armi.

YOOKA - REPLAYLEE (PM Studios e Playtonic Friends, per Pc, Ps5, Xbox Series e Switch 2)


Anno 2017: la riscossa dei platform 3D. Uscirono infatti proprio allora, a rimarcarne il revival, titoli come Super Mario Odyssey di Nintendo e Crash Bandicoot N. Sane Trilogy per i tipi Activision, ma in mezzo alle grandi produzioni riusciva a farsi largo anche Yooka-Laylee del neonato studio indie Playtonic, formato da ex della storica software house britannica Rare, che a sua volta aveva lanciato nel 1998 un altro classico di successo, la serie Banjo-Kazooie, per la quale però dopo il 2008 non c’erano state più nuove uscite. Il team ricostituitosi a Playtonic sentiva invece l’esigenza di tornare a un filone molto amato, cercando di supplire tramite la passione alla riduzione di forze rispetto a una major. Yooka-Laylee si era così fatto subito notare favorevolmente, con Plavtonic che adesso, nel decennale della sua fondazione, risponde con Yooka - Replaylee, sorta di versione estesa, riveduta e corretta, del piccolo cult. Un po’ remaster, ma anche un po’ remake, potenziato in ogni ambito, dalla grafica ai controlli, alla telecamera, pur introducendo una buona dose di contenuti inediti spingendosi quasi verso una reinterpretazione moderna della propria formula, Yooka - Replaylee ricalca ancora l’atmosfera gioiosa, le situazioni, i personaggi e la trama da commedia brillante dell’originale. Perfette mascotte del secolo scorso catapultate ai giorni nostri, i protagonisti del gioco sono il camaleonte verde Yooka e la pipistrella viola Laylee: due cacciatori di tesori uniti da una salda amicizia che si trovano per caso in possesso di quello che potrebbe essere il libro più importante della vita. Viene loro però sottratto da Capital B, il malvagio ceo di una società votata unicamente al profitto che sta impadronendosi di ogni volume per arrivare finalmente al tomo arcano nel quale è nascosta la chiave per riscrivere le regole dell’universo. Il prode duo non si abbatte e, con il nobile intento di salvare il mondo, si imbarca nell’impresa di recuperare le Pagimagiche perdute (Pagies), disseminate ovunque per gli scenari open world di Yooka - Replaylee. Comincia da qui un mirabolante e stralunato, coloratissimo viaggio nel solco di una continuità profondamente rinnovata. Basti pensare che i 145 fogli da scovare nel 2017 sono saliti nel rifacimento a 300, dunque con più aree da esplorare, occhi da aguzzare e azioni da compiere. Anche il guardaroba si è espanso e in parallelo le opzioni di accessibilità, all’insegna della massima personalizzazione di ogni aspetto del videogame. In generale rimettere mano a Yooka-Laylee attraverso Yooka - Replaylee ha permesso a Plavtonic di smussarne gli angoli ricalibrando il ritmo dell’avventura, affinché l’esperienza risulti più godibile e a misura di tutti i giocatori, eliminando qualsiasi ostacolo artificiale, aggiungendo mosse e modificando la progressione, mantenendo in definitiva l’essenza romantica svecchiata però da certa nostalgia. Le sfide ci sono sempre, pure più difficili, numerose e complesse di prima, ma senza mettersi di traverso al piacere di zompettare per gli scenari solo per il gusto di farlo, come si conviene a ogni bel platform. Ne vale la pena per ammirare anche l’imponente arricchimento sul piano audiovisivo: tutto in Yooka – Replaylee è stato ridisegnato e animato ex novo per l’occasione, restituendo un impatto scenico da cartoon di ampio respiro. Alla riuscita dell’operazione concorre la colonna sonora riarrangiata firmata dai leggendari compositori Grant Kirkhope (Banjo-Kazooie) e David Wise (Donkey Kong Country) eseguita dall’Orchestra filarmonica della città di Praga. Se Yooka - Replaylee è un intenso, vivacissimo e festoso inno all’eterno fascino dei platform, lungi dall’essere incamminati sul viale del tramonto, l’omaggio al genere e a un’epoca viene ulteriormente ribadito dalla chicca del gioco nel gioco con il dinosauro Rextro, sfolgorante nel suo immaginario vintage che richiama l’età dell’oro dei collectathon degli anni ’90, a cominciare proprio dalle pietre miliari di Rare per Nintendo 64 di cui gli Yooka-Laylee rappresentano gli eredi spirituali. Il rettile arancione, che si può osservare dietro la lente di un vecchio televisore a tubo catodico, figura in alcuni coin-op sparsi nelle diverse ambientazioni dove, spaziando dalle piattaforme alla logica dei rompicapo, si ingaggiano i cattivi Megabyte per vincere medaglie da barattare con gli indispensabili Pagies.

NICKTOONS & THE DICE OF DESTINY (GameMill Entertainment, per Pc e console)


I personaggi dei popolari cartoon di Nickelodeon, sulla cresta dell’onda dagli anni Novanta, tornano a incarnarsi nell’universo videoludico grazie al gdr d’azione Nicktoons & The Dice of Destiny. Un titolo completamente nuovo, adatto a ogni età, dove impersonare la versione vagamente fantasy di SpongeBob Squarepants, Leonardo, Katara, Timmy Turner, Sandy Cheeks, Susie Carmichael, Danny Phantom, Jenny Wakeman e Jimmy Neutron, trasformati negli eroi di un tipico gioco di ruolo che li suddivide in classi adattate per l’occasione, per cui SpongeBob Squarepants veste l’armatura di un cavaliere, Katara è una maga, Timmy Turner un mago, Susie Carmichael un’incantatrice, la scoiattola texana Sandy Cheeks una barbara, la tartaruga ninja mutante Leonardo un samurai e via discorrendo, ciascuno con specifiche abilità e poteri unici. Cinque sono subito disponibili, gli altri si sbloccano progressivamente, dando vita a un crossover di proporzioni epiche, frutto del lavoro di squadra tra l’editore GameMill, impegnato nella trasposizione interattiva del longevo franchise, la cui premiere risale al 1991, e gli sviluppatori Petit Fabrik (software house di Manaus in Brasile, già coinvolta nella realizzazione di Looney Tunes: Wacky World Sports, per restare in tema di popolari disegni animati) e Fair Play Labs (lo studio di San Jose in Costa Rica, autore con la svedese Ludosity dei picchiaduro Nickelodeon All-Star Brawl). The Dice of Destiny, che pesca da ben otto diversi cartoon, rievoca i pen and paper rpg con Timmy Turner nella funzione di narratore. Si può giocare da soli o in multiplayer, fino a quattro giocatori in locale. La curva di difficoltà è mantenuta graduale così da permettere il divertimento di tutta la famiglia, genitori e figli, bambini molto piccoli incuriositi e adulti per i quali Nicktoons & The Dice of Destiny potrà avere l’effetto di un ritorno all’infanzia carico di nostalgia (da noi il fenomeno è arrivato nel 1997 su RaiSat, poi in maniera più strutturata dal 1° novembre 2004 con il lancio del canale Nickelodeon Italia). Era dal 2008, con il quarto e ultimo episodio della saga Nicktoons Unite!, che i fan aspettavano di rivedere in azione tutti insieme appassionatamente i loro beniamini, con la gioia ora di trovarli più in forma che mai. Ogni livello reinventa ambientazioni conosciute. Bikini Bottomshire ispirato al mondo di SpongeBob, tra villaggi sottomarini, spatole magiche e meduse giganti da affrontare. La spettrale Zona Fantasma deriva dal regno oscuro di Danny Phantom, irto di trappole. Nazione del Fuoco riprende la geografia di Avatar: La leggenda di Aang, immaginando un’area vulcanica. I Laboratori di Retroville, le cui origini conducono a Jimmy Neutron, sono un concentrato di tecnologia in salsa steampunk,  dove attivare strani gadget e risolvere enigmi. La Foresta delle Fate rimanda alle atmosfere magiche dei Fantagenitori, teatro di illusioni e di incantesimi. Al termine di ciascuna missione ci si rinfranca nell’hub, dove chiacchierare con pittoreschi personaggi di spalla che hanno tutti qualcosa da raccontare.

CARIMARA: BENEATH THE FORLON LIMBS (Critical Reflex, per Pc)


Elfi, folletti, giganti: sono tante le creature che popolano il ricco folclore della Normandia, ma il protagonista di Carimara è in realtà un goblin, parola che deriva proprio dal francese e che si ipotizza possa essere nata in quel di Évreux, nella parte est della regione del nord della Francia. Soprattutto la Normandia è nel cuore di Bastinus Rex, pseudonimo di Bastien Mahaut, unico sviluppatore di Carimara: Beneath the forlon limbs che ha profuso nel titolo le sue passioni e il suo mondo. La natura richiama il giardino coltivato dalla madre, la mano che appare a un certo punto è desunta da una fotografia del padre ritrovata per caso… Per l’autore francese lavorare da soli dalla A alla Z (inclusa un’artigianale riproduzione dei suoni) comporta l’adottare un atteggiamento simile a quello del pittore che dipinge un quadro, in piena autonomia. Un paragone particolarmente calzante vista la cura dedicata all’originalissimo stile visivo del gioco, che unisce rimandi all’animazione in stop-motion, a un’estetica medievale rétro disturbante come nelle tavole di Plastiboo e alla grafica low-poly della prima Playstation, nonostante Bastinus Rex, classe 1998, abbia precisato di non aver mai giocato né con una Ps1, né con una Ps2, nutrendo semmai una forte nostalgia per i pixel e texture d’antan delle vecchie console Nintendo. Da piccolo era anche rimasto molto colpito dalle atmosfere macabre del romanzo dark fantasy L’apprendista del mago di Joseph Delaney, desiderando ricrearle. Suggestioni e influenze che concorrono all’incantesimo dell’inquietante e poetica avventura horror di Carimara. Il goblin, chiamato a liberare una casa misteriosa infestata da un fantasma, non parla, ma comunica con gli strambi inquilini tramite le carte che compaiono sullo schermo. Deve guardarsi attorno per recuperarle e risolvere gli enigmi che gli permettono di ottenerne ulteriori. Non basta porre domande: devono essere quelle giuste, per cui le carte vanno selezionate con cura. Come la tavolozza si limita a poche tonalità capaci comunque di trasmettere il senso di cupo smarrimento di questo microcosmo surreale, così Carimara è un racconto breve, ma intenso, che intreccia i temi della perdita e della memoria custodita nelle cose.

TOKYO UNDERGROUND KILLER (3DM Games e Gone Shootin, per Pc)


Un sicario assetato di sangue in una Tokyo che non dorme mai. Lo studio Phoenix Game Productions, sorto nel 2019 a Osaka e diretto da Daniel Hedjazi, madrelingua tedesco, stabilitosi in Giappone da oltre un decennio, ha firmato con Tokyo Underground Killer il suo primo titolo originale, che segue l’importante collaborazione con Capcom per Resident Evil 4. Una predilezione per il cinema di Shin’ya Tsukamoto (il regista di Tetsuo, considerato il maestro del cyberpunk nipponico) e di Takashi Miike (il controverso autore di Ichi the Killer e di altri gangster movie intrisi di violenza), Hedjazi tra le ispirazioni chiave per il videogame ha citato anche Hotline Miami di Dennaton e No More Heroes, serie cult di Grasshopper Manufacture, la casa fondata da Suda51, più un film psichedelico come Enter the Void, ambientato proprio a Tokyo. Anche nel gioco d’azione in prima persona di Phoenix la capitale giapponese è trasfigurata attraverso una lente allucinata e delirante. Al soldo di una potente organizzazione criminale, Kobayashi è soprannominato il vampiro di Shinjuku perché è tra i vicoli della zona della vita notturna che si aggira l’assassino professionista, oltreché nell’elettrizzante Akihabara, vero paradiso per un otaku come lui, appassionato di manga, anime e videogame. Mediato dai fumetti anche lo stile visivo del gioco, che affida il racconto agli inserti di pagine di comics disegnate da Hans Steinbach. Il problema è che, in aggiunta agli incarichi ricevuti per lavoro con cui eliminare gli esponenti di clan mafiosi rivali, su Tokyo si è abbattuta un’invasione di creature mostruose, che Kobayashi combatte per spazzarle via, facendole a pezzi con la sua affilatissima katana, in modo da assorbirne il sangue e acquisire così abilità speciali, le Blood Skills, e intanto ricaricarsi di energia. Per distrarsi trascorre il (poco) tempo libero sotto le sgargianti luci al neon del quartiere a luci rosse di Kabuchiko, tra club malfamati, sale di pachinko, locali di scommesse, dove ci si può sfidare in minigame a tema. Si diletta anche ad arredare il suo appartamento nel cuore di Shinjuku, compra il cibo preparato in un negozietto di bento. Insomma, coltiva scampoli di normalità in una continua, adrenalinica esplosione di brutalità furiosa, sulle note martellanti della musica elettronica di Andrew Hulshult. Completamente doppiato in inglese e in giapponese, Tokyo Underground Killer si presenta come una produzione curatissima in ogni dettaglio e sfoggia le voci di un ampio cast di attori, tra cui il veterano Hidekatsu Shibata, alias Mister X nell’Uomo tigre, il Barone Ashura in Mazinga Z, il drago Shenron di Dragon Ball Z e Calgara di One Piece. Nel videogame interpreta Ishihara, il sadico e spietato boss di Kobayashi.

MARS FIRST LOGISTICS (Shape Shop con Outersloth, per Pc)


L’esplorazione del Pianeta Rosso è una realtà in Mars First Logistics, la simulazione di fisica a mondo aperto sviluppata dallo studio Shape Shop di Ian MacLarty, che già in Red Desert Render, scaricabile per Pc, Mac e Linux dalla pagina del programmatore australiano sulla piattaforma Itch.io, invitava a inoltrarsi in aride distese sconfinate e in apparenza prive di vita. L’ispirazione era venuta dalle sessioni online di Red Dead Redemption 2 con gli amici, documentate anche nel cortometraggio The Grannies su YouTube. Pluripremiato per i suoi titoli sperimentali come Boson X (sulla scoperta di nuove particelle in un acceleratore di massa), The Catacombs of Solaris (sulla percezione dello spazio in 2D e in 3D), Dissembler (con i suoi puzzle cromatici quali espressioni di arte astratta) e Jumpgrid (dove aprire tunnel spazio-temporali per il teletrasporto), MacLarty con Mars First Logistics, oltre a disegnare l’accidentata superficie del quarto pianeta del sistema solare, porta all’attenzione i tipici veicoli robotici progettati per muoversi e lavorare in questo luogo estremo, talmente ostile da configurarsi come il primo avversario da affrontare, sulla falsariga di esperienze di guida off-road provate dall’autore giocando a Mudrunner (ambientato in lande remote come la Siberia) o a Euro Track Simulator, per la sfida di coprire grandi distanze con carichi eccezionali. In Mars First Logistics, da soli o con un collega, occorre costruire mezzi speciali assemblando i pezzi un po’ come con i mattoncini Lego, specializzando la macchina in base alla funzione che deve assolvere, dal movimento terra al trasferimento delle merci più svariate, dallo scavo della roccia al trasporto persone. I rover vanno quindi pilotati per aiutare i coloni a edificare la loro città, destinata poi a prosperare, in un gioco che non pone limiti all’espansione della comunità. Lo sguardo si tinge di umorismo, per il tipo di compiti commissionati, al limite dell’impossibile: richiedono di ingegnarsi e di procedere provando e riprovando. Man mano che si portano a termine le missioni aumentano le risorse che consentono di migliorare le tecnologie e quindi allargare l’attività. A catturare in questo titolo coinvolgente e gratificante è anche l’estetica minimalista, basata sul contrasto tra le tonalità calde e fredde dei colori primari a tinte piatte. Come fonte di ispirazione lo stesso Ian ha citato i manuali di istruzioni dei Lego e i fumetti di Tintin di Hergé letti da bambino.

DREAMS OF ANOTHER (Q-Games, per Pc, Ps5 e Psvr2)


Alberi e oggetti dotati di pensieri e di sentimenti, proprio come le persone, nel mondo onirico ideato in Dreams of Another dall’eclettico artista multimediale Baiyon, all’anagrafe Tomohisa Kuramitsu, già all’opera su PixelJunk Eden. Il gioco d’azione e di esplorazione in terza persona è sviluppato e pubblicato da Q-Games, studio indipendente fondato nel 2001 a Kyoto dal programmatore britannico David Cuthbert, un passato in Nintendo, quindi a Sony Computer Entertainment Japan, due colossi del digitale con i quali ha continuato a collaborare. Sul canale YouTube ufficiale Playstation, il direttore creativo Baiyon, che si è occupato anche dell’aspetto visivo, della musica, del sound design, della sceneggiatura e dei dialoghi di Dreams of Another, ha condiviso in un breve, significativo video il dietro le quinte di un’ispirazione coltivata anche e soprattutto a contatto con la natura, nel suo luogo del cuore, sulle rive del fiume Kamo che attraversa Kyoto. Caratterizzato da una forte impronta estetica e intriso di poesia, Dreams of Another è un titolo a sé, evocativo e sfuggente. Si spara. L’enigmatico protagonista, l’Uomo in pigiama, cammina con un’arma a tracolla e la usa, ma l’esito di ogni colpo è inaspettato: non uccide, bensì aiuta il contesto a rifiorire, eliminando ciò che lo soffocava. Ci sono anche oggetti imprigionati che, come in una versione dei boss di fine livello, richiedono un supplemento di energia, per arrivare a una liberazione assimilabile a un processo di guarigione. Il leitmotiv esplicitato da Baiyon è: Nessuna creazione senza distruzione. L’Uomo in pigiama si adegua al mantra dello sviluppatore. Non si sa perché il protagonista sia immerso in un sonno profondo, ma interagendo con altri eccentrici personaggi, come il Soldato errante, si ottengono a poco a poco quei frammenti che aiutano a comporre il mosaico. Ci sono inoltre ulteriori archi narrativi incentrati su diverse incarnazioni dell’angoscia, dai pesci che vorrebbero evadere dall’angustia soffocante del loro acquario all’estrema nostalgia di un ragazzo per la voce del pianoforte di casa. Progetti dalla consistenza impalpabile, viste le circostanze in cui sono espressi. La stessa grafica architettata da Baiyon appare rarefatta, costruita attraverso una sua versione del puntinismo. Si va avanti varcando soglie chiuse da porte, che come tutte le cose di Dreams of Another hanno una mente, una coscienza, provano sensazioni, parlano. Per l’artista si tratta anche di favorire una maggior consapevolezza dello spirito che anima i luoghi e li rende vivi, nonostante sia più facile non accorgersi pienamente della realtà circostante. Per questo la sperimentazione di Baiyon si è spinta fino a includere nel paesaggio sonoro i rumori di oggetti di  uso quotidiano, in ambientazioni che non solo si percorrono, ma si ascoltano, mentre si svolge il filo di una favola composta da tante favole, frutto di incontri con uno strambo clown, una panchina abbandonata, addentrandosi nei territori della memoria, della dimenticanza, della colpa, dell’espiazione, del peso e del senso dell’esistenza. Una produzione audace che, mentre rievoca la più ambiziosa stagione multimediale del Made in Japan, tocca oggi le frontiere virtuali del visore Psvr2.

THE EDGE OF ALLEGORIA (CobraTekku, per Pc e Switch)


Arriva su Nintendo Switch l’ammiccante parodia The Edge of Allegoria, uscita inizialmente per Pc e prossimamente atteso su Mac. L’operazione compiuta da Button Factory Games, studio indie fondato nel 2021 dallo sviluppatore Joe Picknell, è tornare un po’ bambino, restando però anche adulto, allestendo un retro rpg in stile Game Boy, ma dai contenuti diversi rispetto a quelli che avrebbe apprezzato quando aveva dieci anni. Se il suo cuore dunque batte ancora per Pokémon Oro e Argento, del 1999, deve essersi insinuata nella mente l’idea di volere ventisei anni dopo qualcosa di più maturo, prendendo come protagonista Joe, un uomo di mezza età che impreca a più non posso, coglie maliziosi sottintesi, dialoga con interlocutori altrettanto chiacchieroni, che hanno informazioni da rivelare e comportamenti spesso non meno rozzi. Joe non se ne va in giro a catturare e collezionare mostriciattoli, preferendo raccogliere armi o i quasi 150 pezzi di equipaggiamento per disporre di un arsenale di tutto rispetto. Perché, una volta partito a esplorare le terre di Allegoria con l’intenzione di lasciarsi i dissapori coniugali alle spalle, di nemici e di pericoli ne trova a iosa, questo antieroe che si imbarca in un’impresa che lo porterà a entrare nella leggenda. Ogni aspetto di un tipico gioco di ruolo è ribaltato nel suo doppio grottesco con un’inventiva a volte un po’ crudele nei confronti del baldo personaggio. Attenzione ai cereali per la colazione che possono devastare la gola. E quella salsa piccante? Può letteralmente bruciare il malcapitato. Per non dire degli effetti micidiali di una letale bevuta di alcolici o di una scorpacciata di funghi che provoca accesi attacchi di follia. I mostri che Joe deve affrontare sono in quantità considerevole, più di centoquaranta, ispirati al bestiario dei miti greci, romani, tra chimere e arpie, e di tutto il mondo, come pure alla fauna del Paese dell’autore, tra alci, castori, oche del Canada, orsi, volpi, ma nella giungla ci sono anche tigri, elefanti, scimmie e non mancano draghi, vampiri e unicorni. In fuga dai litigi con la moglie, non è che il nostro zoticone in salopette finalmente se ne possa stare tranquillo. Al contrario, gliene capitano di tutti i colori. Non sempre si può scegliere e si viene così costretti a compiere azioni discutibili, alle prese con una satira sociale che vira spesso e volentieri nella commedia nera. Picknell si è divertito a realizzare un videogame che fosse divertente in primis per lui, confezionando un’avventura appassionatamente raccontata con la prediletta pixel art a 2-bit, con una tavolozza pressoché monocroma e un pizzico di nostalgia per i giochi d’antan. Allegoria si rivela nella sua vasta varietà e Joe combatte, ottiene ricompense, migliora e si potenzia, con oltre ottanta abilità da apprendere.

DAIMON BLADES (StreumOn Studio, per Pc)


Daimon Blades rappresenta una sorta di rinascita per i parigini Streum On Studio, che tornano alle origini, alle prese con una produzione tutta loro e di nuovo indipendenti, dopo una serie di progetti su commissione (Space Hulk: Deathwing, Necromunda: Hired Gun) e l’ingresso in Focus. Il videogame segna anche la rinascita dell’universo di E.Y.E: Divine Cybermancy, una piccola hit che nel 2011 ha fatto breccia nel cuore degli appassionati, rielaborando in chiave crpg la formula dei first-person shooter. Ma la scintilla risulta persino precedente, quando negli anni ‘90 il nucleo del team lavorava su un gioco da tavolo chiamato Ava mai concretizzatosi che è poi servito da ispirazione per le successive declinazioni digitali. Daimon Blades, lanciato in accesso anticipato su Steam, si inserisce in un solco che sta riaffiorando. Usare la visuale in prima persona per andare oltre gli sparatutto in soggettiva. Qualcosa di diverso che rievoca però anche la tradizione di vecchi cult, risalenti a un’epoca in cui i first-person shooter dominavano la scena con i relativi motori grafici e veniva abbastanza spontaneo reinventare ogni idea attorno quel canone. Dal gioco di ruolo all’hack and slash, dal cyberpunk allo sword and sorcery. Armati di asce, mazze, scudi e spadoni, in Daimon Blades non si trascorre tanto il tempo a sparare - nonostante certi poteri facciano un po’ quell’effetto – quanto a squarciare letteralmente orde di demoni addentrandosi in un cupo mondo techno fantasy dal tono medievaleggiante che costituisce una sorta di prequel ambientato duemila anni prima di E.Y.E: Divine Cybermancy, sul quale si gettano di riflesso nuove luci, attraverso un titolo costruito già in maniera accurata a livello di immaginario e che spinge su un’estetica dark molto affascinante, messa in risalto da una produzione indie che cerca di tradurre una precisa direzione artistica in una grafica 3D dall’impatto visivamente altrettanto spettacolare. L’assoluta protagonista resta comunque l’azione, che affianca al single player offline una modalità co-op online fino a quattro partecipanti dove si esprimono al meglio le varie anime del videogame, da Diablo a Vermintide, passando per Hades e Arx Fatalis, il tutto reinterpretato tenendo il perno saldo sulla componente roguelite, che definisce anche un brutale slasher come Daimon Blades, mentre si affronta la ciclicità delle spedizioni, via via più in profondità, sfidando un crescendo di orrori e diventando man mano più potenti, con un duplice sistema di progressione che riguarda sia il personaggio, sia le armi, che si evolvono a loro volta al pari di esseri viventi cambiando di fatto continuamente l’esperienza.

THE LEGEND OF STEEL EMPIRE (Inin, per Playstation e Switch)


Strictly Limited e Inin rappresentano due facce della stessa medaglia, la tedesca United Games che ha scelto di specializzarsi nel revival dei classici, attraverso le tante sfumature del retrogaming, più o meno vintage, dalle edizioni da collezione al digitale. Una vera riserva di vecchie glorie che ora porta alla riscoperta di Steel Empire, shoot ‘em up della leggendaria scuola nipponica allora ancora decisamente prolifica, si parla dei primi anni Novanta, sull’onda lunga dei vari Gradius (Konami), Darius (Taito), R-Type (Irem). La storia di Steel Empire, uscito per Mega Drive nel 1992, si intreccia con quella del quasi coevo Over Horizon (1991) alle cui redini si ritrovano lo studio Hot-b e lo stesso autore, Yoshinori Satake. Dopo aver pubblicato la raccolta con le diverse versioni degli originali, ossia Over Horizon per Nes, Steel Empire per Genesis/Mega Drive e il relativo adattamento del 2005 per Gba, Inin porta su Playstation anche il remake The Legend of Steel Empire, inizialmente lanciato per Nintendo Switch e basato sui restauri precedenti, per 3DS (2014) e Pc (2018). Si tratta di un rifacimento da appassionati, curato da mebius., team giapponese di cultori del genere dietro alla hit Rolling Gunner. Il progetto punta alla massima fedeltà: stile e colpo d’occhio ricalcano alla perfezione i pixel dell’epoca, ma in realtà è cambiato tutto, dagli elementi grafici, rivisti nell’ottica dell’alta definizione, ai controlli, personalizzabili e ottimizzati per restituire via joypad un feeling più moderno. Il pubblico degli shmups resta d’altronde tra i più sofisticati persino nell’ambito già esigente dell’odierno retrogaming e operazioni così non vengono più improvvisate, ma per funzionare bene oggi richiedono l’attenzione certosina di esperti che analizzino le opere fotogramma per fotogramma. Ciò che distingue Steel Empire e di riflesso il remake nel panorama degli sparatutto a scorrimento (orizzontale) sono alcune caratteristiche, a partire dal fascino dell’ambientazione steampunk, tra locomotive, biplani, dirigibili, con musiche e palette in tema. Al posto del tipico aereo si può optare di utilizzare proprio uno Zeppelin, più lento, ma resistente: i colpi subiti non si traducono subito in game over sgranocchiando poco a poco la barra della vita mentre la potenza di fuoco, con la capacità di sparare di fronte e alle spalle secondo il particolare schema di Steel Empire, è legata a un sistema di crescita su più livelli.  

THE LACERATOR (DreadXP, per Pc)


Dietro alla studio Games From The Abyss, autore di The Lacerator, si cela Fernando Tittz, che da personal trainer si è reinventato sviluppatore di videogame, inseguendo il suo sogno in un Paese, il Brasile, che pur rappresentando oggi il decimo mercato globale e il primo in America Latina non ha reso semplice l’affermazione del digital entertainment, per via del divieto all’importazione di giochi elettronici fino agli anni ‘90 e poi di una tassazione elevata, in grado di fare di qualsiasi titolo una chimera. Dopo alcuni esperimenti autopubblicati o con il sostegno di realtà locali, come QUByte Interactive fondata nel 2010 a San Paolo, Tittz ha guadagnato adesso l’interesse di un editore internazionale, l’etichetta statunitense specializzata in horror DreadXP, che ha trovato in The Lacerator l’ultima follia di un ormai ricco catalogo fatto di stranezze a tinte forti. Il gioco è dichiaratamente una gran trashata che unisce diverse passioni dello sviluppatore, dai videogame al cinema, compresi gli spezzoni peggiori delle pellicole più dimenticate che finiscono raccolti in meme su Youtube. Il tutto viene trasformato in The Lacerator in una sorta di survival horror vecchia scuola, ripescato direttamente dagli albori della grafica 3D degli anni ‘90 e dei tank control dei primi Resident Evil e Silent Hill (da alternare alla più comoda visuale dietro le spalle in terza persona), enfatizzando la violenza alla grindhouse seppur in una chiave poligonale stilizzata e senza prendersi mai sul serio, con momenti splatter tanto estremi quanto volontariamente comici e caricaturali. L’incipit non è da meno. Al termine di un incontro galante, il protagonista Max, presentato come il più famoso attore di pellicole per adulti degli anni ‘80, si risveglia assieme alla sua troupe prigioniero del serial killer The Lacerator in un covo pieno di trappole da cui deve fuggire, evitando di venire letteralmente mutilato mentre si incammina lungo vari percorsi verso diversi finali, uno più assurdo dell’altro. Perdere un arto non conduce al game over, ma costringe ad adattarsi, cambiando le dinamiche in base al corpo e alle situazioni come insegnano i film Army of Darkness e Planet Terror.  

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