Generazione bit
AVATAR: FRONTIERS OF PANDORA – DALLE CENERI (Ubisoft, per Pc, Ps5 e Xbox Series)
C’è una sorta di family feeling che accomuna un po’ tutti i principali titoli Ubisoft degli ultimi anni, incanalati nel solco di una formula open world che dagli Assassin’s Creed va ai Far Cry, fino alle incursioni nei celebri franchise di Guerre stellari e di Avatar, tramite gli spettacolari blockbuster firmati dagli svedesi Massive Entertainment (lo studio dei Tom Clancy’s The Division), in grado di ridefinire l’idea stessa di tie-in. Grosse produzioni come Star Wars Outlaws e specialmente Avatar: Frontiers of Pandora, un punto di riferimento per il genere e, seppur in senso lato, per la scena oggi meno frequentata degli adattamenti legati ai successi cinematografici, pronto a stupire ancora di più adesso grazie a From the Ashes (Dalle ceneri), l’espansione (dopo gli episodi extra scaricabili The Sky Breaker e Secrets of The Spire) approntata per intrecciarsi maggiormente non solo con l’universo fantastico di James Cameron, ma con il nuovo lungometraggio del regista, Avatar - Fuoco e cenere, appena uscito nelle sale. Arrivata a due anni dal lancio del videogame, From the Ashes si inserisce in cima a una profonda opera di rifinitura e ampliamento che nel corso dei mesi, di update in update, ha interessato ogni aspetto di Frontiers of Pandora. Rispetto alla prima versione, gli autori si sono spinti addirittura a modifiche sostanziali dell’esperienza: ora è possibile alternare la visuale in soggettiva, attorno alla quale era stato originariamente concepito il titolo, a un’inedita inquadratura in terza persona, che funziona alla grande in molti frangenti e in effetti si sposa a meraviglia con il progetto. Nel suo espandere efficacemente l’immaginario di Cameron in una chiave transmediale, Frontiers of Pandora rappresenta infatti un tuffo sbalorditivo in una dimensione al di là dello schermo incredibilmente vivida che cattura in maniera magnifica l’estetica visionaria al centro dei film, quasi un trip psichedelico che si sperimenta all’ennesima potenza proprio digitalmente, sfruttando i caratteri immersivi tipici del medium videoludico, addentrandosi tra i panorami sconfinati e la natura rigogliosa del pianeta incontaminato abitato dai Na’vi, gli alieni dalla pelle blu costretti a misurarsi con la cupidigia e la distruzione portate nel loro mondo dall’uomo. From the Ashes mette sul piatto al meglio anche gli ingredienti tutta azione dell’epopea di Avatar che racconta una favola ecologica in uno stile hollywoodiano, dove l’incanto di Pandora si staglia su una buona dose di esplosioni, proiettili e roboanti sequenze al cardiopalma, a cominciare dai combattimenti in volo, aeromobili contro cavalcature, poi le fasi shooter, lo stealth... Un dlc decisamente a fuoco tanto nelle dinamiche, quanto sul piano narrativo, con un cambio di protagonista – l’inarrestabile So’lek, cacciatore capace di collezionare una tale sfilza di piastrine nemiche da meritarsi il sinistro appellativo di Dog Tag Warrior - e la vicenda che assume contorni più personali, in un cammino di vendetta che conduce alla scoperta di ulteriori, suggestivi territori inesplorati mentre intorno si osserva la devastazione farsi largo in luoghi simbolo di Avatar già ammirati in Frontiers of Pandora. Compare anche il vecchio eroe, The Sarentu, che può essere recuperato da un salvataggio precedente in modo da corrispondere all’esatto alter ego del giocatore, a testimonianza della cura riservata alla costruzione coerente di un’avventura che si sovrappone e si incastra a più livelli con il percorso e i toni intrapresi dai film, estendendone appunto l’affresco all’interno di un’affascinante cornice multimediale. Un’operazione che trova in Ubisoft il partner perfetto, per via di quell’anima artistica che ne qualifica da sempre le produzioni: persino le più imponenti riescono a risultare comunque ardite, se vogliamo intrinsecamente cinematografiche, e ciò si coglie subito pure in kolossal da computer e console come Avatar: Frontiers of Pandora e From the Ashes.

ROUTINE (Raw Fury, per Pc e Xbox)
La fantascienza è quella dell’immaginario degli anni Ottanta, con i computer dell’epoca, gli schermi a tubo catodico e altre relitti tecnologici che sembrano provenire non da quattro decenni fa, bensì ancora più lontano nel tempo, quasi in una preistoria. Eppure la Luna è già stata colonizzata e qui, verso una base abbandonata, sulla quale è calato il silenzio, si dirige nel 1999 il protagonista di Routine per effettuare le necessarie riparazioni, ritrovandosi coinvolto in un’inquietante serie di misteri. Firmato dall’inglese Lunar Software, Routine è frutto di un’idea a lungo coltivata dal lead designer e artista Aaron Foster, affascinato fin da bambino dalla Luna. Già nel 2010 aveva scelto di licenziarsi da un posto come artista di ambienti 3D per dedicarsi allo sviluppo di progetti più personali, mantenendosi come docente part-time alla University of Central Lancashire a Preston, dove si era laureato, e riservando le restanti ore della giornata a quello che sarebbe diventato Routine. Un horror in prima persona, annunciato nel 2012, ma poi sparito dai radar, tanto da far dubitare potesse mai venire alla luce. Invece l’attesa non è stata vana e Routine, con il supporto dell’editore Raw Fury, è arrivato in porto, ad avvolgere nelle atmosfere angoscianti di un luogo più affollato di quanto le apparenze lasciassero supporre. Visivamente carico di suggestioni, negli orizzonti spalancati su paesaggi desolati, di rocce e dune di polvere, eppure seducenti, nonché nei corridoi e nei locali di una struttura accuratamente ricostruita con un gusto retro-futuristico improntato a uno spiazzante fotorealismo, Routine ha guardato anche al cinema degli Alien e di 2001: Odissea nello spazio, nonché de La casa ai confini della realtà, dove una condizione di doloroso isolamento spingeva a superare varchi tra le dimensioni, con la mente in grado di rendere tangibile ciò che esisteva in primis come fantasia. Tra i videogame, ecco il cult System Shock, disseminato di terminali che servivano all’hacker protagonista per aggiornare il suo impianto chirurgico e per disattivare i sistemi di sicurezza della base spaziale da aggiustare per riuscire a fuggire dalle grinfie di un’intelligenza artificiale folle e spietata. Anche Routine ha nella meccanica dei terminali uno dei mezzi principali per ottenere informazioni sulla struttura devastata e capire cosa sia effettivamente successo, assemblando le tessere costituite da email, annotazioni su registri, registrazioni audio, documenti. Non vengono fornite coordinate da seguire, piuttosto si viene immersi in questo contesto straniante, senza riferimenti precisi, in balia degli eventi, costretti a tendere l’orecchio a suoni e rumori rivelatori di presenze ostili. La voluta situazione di disorientamento nella quale ci si muove alimenta il terrore sottilmente psicologico di Routine. Una minaccia palese sono i robot, trasformati, non si sa perché, da docili aiutanti in implacabili persecutori. L’unica arma a disposizione è il C.A.T., Cosmonaut Assisance Tool, che consente di interfacciarsi con le macchine, di aprire le porte e di risolvere i rompicapo, di solito logici, in un titolo dalle dinamiche intuitive, dove la tensione è una compagna costante, le opzioni a disposizione per difendersi sono limitate, le incognite abbondano e sopravvivere è tutt’altro che scontato.

OCTOPATH TRAVELER 0 (Square Enix, per Pc e console)
L’epica di Octopath Traveler, la serie di gdr che ha già conquistato il cuore di più di sei milioni di giocatori nel mondo, si arricchisce di un prequel dove per la prima volta non si deve scegliere quale interpretare in un gruppo di personaggi. È il giocatore a modellare il protagonista e a costruire il nido dove qualsiasi avventuriero vagheggia di tornare per assaporare l’aria di casa. Un posto dove sentirsi al sicuro, dopo che attorno a noi qualsiasi certezza è franata, sotto la spinta di avidi piani per esercitare il potere assoluto sull’intero continente di Orsterra. Octopath Traveler 0, frutto della collaborazione tra Square Enix e Doki Doki Groove Works, raccoglie alcuni spunti del prequel per mobile Octopath Traveler: Champions of the Continent (2020), ma portandoli a compimento su una scala inedita, approfondendo il profilo dei personaggi, dando più dinamismo e intensità ai combattimenti a turni (pur adottando la classica meccanica Break and Boost che tiene conto delle vulnerabilità dell’avversario per azzerarne i punti scudo e potenziare i danni inferti in attacchi dal ritmo coinvolgente), introducendo il doppiaggio completo in inglese, realizzando dunque un titolo nuovo, non un semplice adattamento. All’inizio si respira nella piccola località di Wishvale l’atmosfera di incanto tipica della serie che tanto ha contribuito a far splendere la grafica HD-2D, marchio di fabbrica di Square Enix. Uno stile che coniuga la pixel art della tradizione con le applicazioni delle tecnologie più avanzate, riuscendo nell’impresa di restituire l’aura irripetibile dei giochi di ruolo della stagione d’oro degli anni Novanta, pur utilizzando effetti visivi raffinati e un’ambientazione 3D, che rendono l’esito finale pienamente apprezzabile anche agli occhi di chi è abituato agli elevati standard odierni. La tranquilla quotidianità di Wishvale, dove il nostro protagonista si allena per entrare nella ronda e proteggere i concittadini da eventuali nemici, viene spezzata dall’irrompere di un esercito che la rade al suolo, incendiando gli edifici. L’attacco avviene all’improvviso, mentre gli abitanti stanno celebrando la loro annuale festa più importante. Inevitabile per l’eroe decidere di partire per vendicarsi, attuando una sua forma di giustizia nei confronti di chi ha spazzato via un microcosmo basato sull’amicizia, il rispetto, la solidarietà tra gli abitanti. Dietro l’azione fulminea degli invasori c’è il segreto custodito nelle viscere di Wishvale, legato alla mitologia di Octopath Traveler che, dall’architettura della chiesa-tempio ispirata alle cattedrali gotiche fino ai riferimenti agli anelli del potere, attinge alla trilogia di Tolkien e soprattutto rielabora sincreticamente temi del medioevo europeo, a cominciare dal viaggio del protagonista, sorta di quête del cavaliere senza macchia e senza paura, alla ricerca di qualcosa di importante per gli altri e per sé, avendo un conto aperto con il destino. In Octopath Traveler 0, dove lo zero assume il significato di una ripartenza dal nulla, c’è anche l’aspetto dello sforzo collettivo necessario per raggiungere gli obiettivi, per cui l’eroe si completa con la compagnia costituta da otto personaggi, selezionati in un cast di trenta, ciascuno con una propria personalità, con capacità e motivazioni a sostenerli in battaglia. Il protagonista non è soltanto animato dal senso di colpa per non essere stato in grado di salvare Wishvale. La vuole riedificare, per sanare la ferita di un trauma sfaccettato e complesso, perché si impara cammin facendo qualcosa di fondamentale sugli eventi e sui personaggi, seguendo tre archi narrativi per arrivare a sconfiggere i responsabili della caduta di Wishvale. Al termine, non si può scrivere la parola fine, perché si spalancano ulteriori percorsi nel lato oscuro di Orsterra, dove allignano regni belligeranti gli uni contro gli altri e istituzioni religiose corrotte che minano le speranze di pace. La colonna sonora, affidata allo storico compositore Yasunori Nishiki, offre sia brani originali sia celebri motivi dai titoli precedenti, gettando ponti anche dal punto di vista emotivo tra passato e presente di una serie che dal 2018 a oggi continua ad affascinare.

CONSTANCE (Blue Backpack con Byte Rockers’ Games e PARCO Games, per Pc)
Un attacco di panico che spinge a interrogarsi sulla necessità di ritrovare un equilibrio tra il tempo dedicato al lavoro e quello per la propria vita personale, poi un confronto con i colleghi e scoprire così come nessuno sia rimasto immune da problemi legati alla sfera mentale, tra chi ha sperimentato gli effetti del burnout, chi periodi di depressione, chi episodi di ansia paralizzante… L’ispirazione per Constance, metroidvania in 2D sviluppato da btf, arriva anche questa volta dal vissuto del team. Un po’ come era avvenuto per un altro recente titolo della casa, The Berlin Apartment, figlio della constatazione di abitare nella capitale tedesca in appartamenti vecchi più di cento anni, con le porte segnate da graffi risalenti a chissà quando e la curiosità su chi risiedesse lì in passato. Branca di un’azienda, btf (bildundtonfabrik), che dalle sedi di Colonia e di Berlino opera nel campo della pre-produzione, produzione e post-produzione di serie tv, film e documentari, il dipartimento Games vuole caratterizzarsi per l’attenzione verso tematiche profonde, dai risvolti anche drammatici, ma che si possono cercare di affrontare con uno spirito positivo. La protagonista di Constance è un’artista, per la quale tele e pennello si trasformano in strumenti di guarigione, non prima però di aver intrapreso un doloroso viaggio interiore. Sopraffatta da un’attività che, per la sua mole, si è ridotta a un duro tour de force quotidiano ormai privo di creatività sotto la spinta delle scadenze da rispettare, Constance è lo specchio della condizione nella quale a un certo punto si è sentito intrappolato il direttore creativo del gioco, trasferendo sentimenti e sensazioni in questo originale platform, disegnato a mano fotogramma per fotogramma. Le ambientazioni sono frutto della fascinazione per la tavolozza e il brio dei film di animazione dello Studio Ghibli, mentre tra i videogame i riferimenti vanno da Hollow Knight al non ancora uscito Crossworn, con le loro atmosfere vivide, cupe eppure non opprimenti, che dal buio conducono alla salvezza. Disponibile per Pc, con le versioni per le console Sony, Microsoft e Nintendo attese nel 2026, Constance rielabora in modo originale quegli spunti, proponendo una stretta interrelazione tra i pensieri della protagonista, la grafica e le meccaniche del gioco, dove tutto diventa pittura, fondendo con il colore lo stesso personaggio principale, la cui agilità ricorda le movenze fluide con cui un consumato artista trasferisce con il pennello idee e forme sul supporto. Se gli sfondi rivelano dettagli eleganti, specie nelle sequenze dal gusto Art Nouveau, si tratta in verità di una realtà in sfacelo, così come Constance è a un passo dal crollo, ma ha la forza di gettarsi nell’impresa di lottare contro le sue paure, contro i boss mostruosi che vorrebbero sbarrarle il cammino. Esplora, risolve rompicapo, dischiude aree nascoste, cresce, impara, per arrivare a liberarsi dai fantasmi che l’angosciavano impedendole di esprimere al meglio la sua personalità. Ogni bioma è la metafora di uno stato psicologico problematico, in un titolo che vuole rivolgersi a una platea ampia, senza per questo voler rinunciare agli aficionados di un genere di solito irto di difficoltà, che in effetti, volendo, non mancano, ma la storia principale è accessibile anche ai neofiti, perché non ci sono ostacoli insormontabili. Quando Constance in apparenza soccombe, si può scegliere se tornare al precedente salvataggio oppure andare avanti, con un livello di salute un po’ ridotto, ma che consente comunque di procedere, aprendo a prospettive di crescita, fortificati dall’aver superato un labirinto di avversità.

ROMANCING SAGA - MINSTREL SONG - REMASTERED INTERNATIONAL (Red Art Games, per Playstation e Switch)
Arriva anche in Europa sulle console Sony e Nintendo, per la prima volta localizzata con testi in italiano (oltreché in francese, tedesco e spagnolo), la versione rimasterizzata di Romancing SaGa - Minstrel Song, che era già apparsa nel 2022 per i tipi di Square Enix su Pc, Playstation e Switch e mobile con doppiaggio in giapponese e in inglese, incluso adesso nella nuova edizione Romancing SaGa - Minstrel Song - Remastered International pubblicata da Red Art Games. Un titolo dalle molte vite, in quanto nel 2002 Minstrel Song aveva debuttato quale completo remake in 3D per Ps2 dell’ormai classico a 16-bit Romancing SaGa (1992), primo capitolo di una trilogia e quarto titolo della serie SaGa creata nel 1989 da Akitoshi Kawazu. Con il passaggio all’HD, Romancing SaGa aveva dunque acquisito il sottotitolo Minstrel Song ed effettivamente il menestrello è presenza ricorrente nella saga: ha uno sguardo capace di accettare il bene e il male del mondo, contrariamente agli altri personaggi la cui visione più manichea esclude alcuni aspetti, privilegiandone altri, sulla spinta di un caleidoscopio di emozioni. Entrato nel 1985 nell’allora Square (poi Square Enix), partecipando come sviluppatore alla nascita dei primi due Final Fantasy, Kawazu ha mantenuto un interesse prioritario per i giochi di ruolo, imprimendo un tocco caratteristico al genere, grazie a numerose scelte non convenzionali, dove a contare sono più le risorse offerte dal gameplay che non la narrazione, di solito invece al cuore dei gdr. Al posto della linearità c’è una continua imprevedibilità e, per la loro complessità, le meccaniche si apprendono non in modo intuitivo, bensì provando e riprovando. In più il personaggio potenzia le sue abilità casualmente in battaglia e non attraverso la scalata da un livello al successivo. Anzi, i livelli non esistono e la crescita delle statistiche si verifica non si sa bene in relazione a cosa, per cui anche dopo aver sconfitto un boss parecchio ostico può non accadere nulla. Il che potrebbe risultare spiazzante o generare un corroborante senso inesauribile di sorpresa, in un contesto che oltretutto concede un ampio margine di libertà di esplorazione in paesaggi immensi. Selezionato il nostro alter ego digitale in una rosa di otto eroi, ciascuno espressione di un archetipo, ci si lancia nell’impresa di salvare le terre di Mardias, dove sono ormai disperse le pietre del destino utilizzate mille anni prima per imprigionare lo spietato dio Saruin, che sta tornando, insieme agli altrettanto malvagi Dio della morte e Schirach. Come agire? Quale via intraprendere? La risposta è da scoprire man mano che ci si cala in un mondo pieno di possibilità, si incontrano nelle taverne alleati che si uniscono a noi, si ascoltano con attenzione i racconti di interlocutori sconosciuti, si accettano incarichi remunerati con preziose informazioni o tangibili ricompense. Romancing SaGa - Minstrel Song - Remastered, rispetto all’originale Romancing SaGa, è arricchito da eventi in più (alcuni svelati solo se si rigioca il titolo) e di episodi aggiuntivi che permettono di approfondire la storia dei personaggi, il cui novero si allunga con gli NPC diventati arruolabili, come Marina, Monica o Lady Flammer. La grafica, in alta definizione, affidata ancora alla sensibilità dell’illustratrice Tomomi Kobayashi, aggiorna senza stravolgere, nel rispetto dello stile pittorico dell’artista, dalle stesure cromatiche trasparenti e brillanti, racchiuse in delicati arabeschi di linee eleganti, in un intreccio di influenze che dai Preraffaeliti si spingono all’Art Nouveau, passando per il Simbolismo, in sintonia con i richiami spesso esibiti tra il fantasy giapponese e l’arte europea di Otto e Novecento. L’apporto di Kobayashi al successo di Romancing SaGa è talmente riconosciuto che le sue tavole sono state protagoniste di una mostra al Museo della Prefettura di Saga, nell’ambito delle iniziative che quest’anno, nel decennale del videogame, fino alla primavera del 2026 stanno coinvolgendo Square Enix e la circoscrizione amministrativa sull’isola di Kyushu. La casuale omonimia, basata sulla condivisione della parola Saga, ha portato ad avviare da tempo una collaborazione finalizzata alla valorizzazione turistica tra la multinazionale di Shinjuku e la prefettura di Saga, che ha nella porcellana Arita (Arita-yaki) una tipica, secolare produzione. Kobayashi ha dato il suo contributo decorando alcuni piatti con i personaggi di Romancing SaGa. Anche la colonna sonora ha potuto avvalersi del compositore della musica del titolo originale, Kenji Ito, che ha riarrangiato i vecchi brani, scrivendo inoltre alcuni inediti.

NECESSE (Fair Games Studio, per Pc, Mac e Linux)
Se non è stato un record, c’è mancato poco: era dal 2019 che per Necesse di Fair Games Studio, software house fondata in quello stesso anno a Aarhus in Danimarca, non veniva mai il momento di lasciare l’accesso anticipato, ma quando finalmente il survival rpg con vista dall’alto si è presentato fatto e finito ha subito venduto, nel giro di un mese, ben due milioni di copie. E pensare che tutto era nato come l’hobby coltivato con passione da un ragazzo, Mads Skovgaard, sostanzialmente un autodidatta che, cresciuto giocando a Minecraft e Terraria, aveva cominciato nel 2012 a sviluppare il suo sogno nel cassetto, ossia Necesse, utilizzando un motore proprietario e mettendosi a imparare da solo tutto ciò che gli era necessario conoscere, dalla pixel art al sound design, dalla programmazione al marketing. Successivamente aveva dato vita al suo team con altri sette game developer. A Natale è intanto arrivato un primo contenuto aggiuntivo, il secondo è in calendario nella primavera del 2026, il terzo in estate, ad arricchire ancor di più il mondo generato proceduralmente e potenzialmente infinito del videogame, che in ogni dettaglio racconta quanta cura è stata riversata nella realizzazione di un titolo altamente personalizzabile e dalle mille diramazioni. La grafica, all’apparenza piuttosto spartana, nasconde un’anima vibrante di colori e di particolari. Considerazioni che si possono traslare ad altri aspetti del gioco, molto più profondo e articolato di quanto la semplicità iniziale potrebbe far supporre. Come da copione, la lotta per la sopravvivenza prende avvio con poco o niente in mano, ma con il bisogno di forgiare i primi strumenti con il legno a disposizione nei pressi. Ci si evolve comunque rapidamente per provare a padroneggiare l’ambiente circostante, articolato in cinque biomi principali (foresta, pianura, palude, paesaggio innevato e deserto), che si estendono anche su due livelli sotterranei, in un crescendo di difficoltà. Si può in qualsiasi momento optare per una modalità più facile, così da non restare bloccati. Di solito non sono un ostacolo insormontabile i boss, da affrontare per l’evoluzione dell’avatar, ma con i quali spesso si può tornare indietro a combattere dopo aver incrementato il nostro arsenale viaggiando negli ambienti successivi. Ci sono poi biomi speciali, tra cui il villaggio dei pirati, tra gli antagonisti in un gioco in cui non difettano certo i nemici: animali come i lupi e gli orsi, creature come zombi, goblin, golem, demoni e spettri, che richiedono approcci differenti. Ci si deve occupare non solo dell’eroe protagonista di un racconto dal respiro epico, ma di un’intera città, destinata a crescere dal minuscolo nucleo primitivo. Per farlo progredire, occorrerà invitare i PNG (personaggi non giocanti) incontrati qua e là a fermarsi nell’insediamento (più raramente vengono spontaneamente in visita), fornendo loro vitto e alloggio. Ricambieranno svolgendo attività a favore del villaggio senza bisogno di impartire ordini di continuo, perché scatta un meccanismo di automatismi, dopo aver impostato le aree che riteniamo fondamentali per far prosperare la città in nuce: la foresta per rifornirsi di legname, l’orto e il frutteto per mettere in tavola i prodotti della terra, i laboratori artigianali dove modellare utensili, le miniere per ottenere minerali, ma ci sono anche le stalle con le mucche da mungere, gli alveari delle api da cui estrarre il miele, il macello e poi la pesca e la caccia per diversificare quanto servito a tavola. Si parte per esplorare e si rientra a casa trovando tanto lavoro portato egregiamente a termine dai concittadini, a patto di non trascurare esigenze e benessere dei nuovi abitanti, alla ricerca costante di un bilanciamento equilibrato, da soli o in multiplayer unendo in un server centinaia di giocatori.

TOMB RAIDER: DEFINITIVE EDITION (Aspyr, per Switch 2)
Pochi personaggi possono vantare un’aura iconica come Lara Croft, che in trent’anni di carriera ha dimostrato di sapersi reinventare più volte, da una generazione di console alla successiva, riadattandosi attraverso generi e tecnologie, mentre il testimone passava da un editore all’altro e cambiavano anche i costumi, lei prima eroina videoludica a sbucare fuori dagli schermi del digital entertainment per conquistare le copertine delle riviste di mezzo mondo. Portata al debutto nel secolo scorso dal defunto studio inglese Core Design, il mito di Tomb Raider è rinato nel terzo millennio per mano degli americani Crystal Dynamics, che ne hanno già affrontate diverse fasi racchiuse in altrettante trilogie. Nella prima, composta da Tomb Raider: Legend (2006), Tomb Raider: Anniversary (2007) e Tomb Raider: Underworld (2008), a venire modernizzata riscrivendone un po’ le classiche avventure era essenzialmente ancora la vecchia Lara ereditata da Core Design. Subito dopo è toccato al più ampio reboot costruito nell’arco di Tomb Raider (2013), Rise of the Tomb Raider (2015) e Shadow of the Tomb Raider (2018), in cui si approfondiscono le origini di una nuova Lara, dalla sensibilità più contemporanea e cinematografica, riconcepita daccapo per mostrare al pubblico di oggi la crescita di una giovane donna all’inizio di un percorso di scoperta di sé che, non priva di fragilità, trova comunque la forza per superare mille ostacoli e andare avanti. In attesa che nel 2026, adesso sotto l’egida di Amazon, con Tomb Raider: Legacy of Atlantis e poi Tomb Raider: Catalyst si apra l’ennesimo filone, Aspyr ripubblica per Switch 2 proprio il Tomb Raider del 2013, nella cosiddetta Tomb Raider: Definitive Edition già vista, a partire dall’anno seguente, su altre piattaforme. Una sorta di director’s cut che, oltre a comprendere i contenuti extra distribuiti in modalità scaricabile all’epoca della prima uscita su Ps3 e Xbox 360, segnava l’ingresso di Lara nell’alta definizione di Ps4 e Xbox One, introducendo chicche grafiche next-gen e ottimizzando aspetti come i controlli. A sbarcare su Switch 2 è né né meno che l’esatto adattamento dell’esperienza di allora, con il valore aggiunto della natura ibrida, e quindi handheld, della console Nintendo, per la quale Tomb Raider: Definitive Edition rappresenta a modo suo un po’ un salto in quella stessa next-gen rimasta a lungo confinata sui maxi display del salotto, ma che, complice l’evoluzione dei sistemi, comincia ormai a farsi largo pure in ambito portatile. Sono trascorsi parecchi anni, però Tomb Raider: Definitive Edition appare finalmente su dispositivi come Switch 2 in un pacchetto completo senza sostanziali compromessi che ne limitino realmente la fruizione rispetto ad altri contesti. Si esprime insomma bene anche in questa dimensione flessibile. Per i fan rimane l’occasione di (ri)vivere uno dei episodi più cult dell’epopea di Lara, non ancora la celebre avventuriera, ma una ragazza in cerca del suo destino, trascinata dagli eventi in un’odissea dai toni survival tra le leggende delle misteriosa isola di Yamatai dentro una coinvolgente narrazione scritta con il contributo della sceneggiatrice Rhianna Pratchett, che ha impresso una svolta intimista alla saga. Continua così, in una veste più attuale, il revival orchestrato da Aspyr, nel cui catalogo compaiono anche i sei capitoli classici di Core Design, rimasterizzati nella doppia raccolta Tomb Raider I–III Remastered e Tomb Raider IV–VI Remastered.

AAERO2: BLACK RAZOR EDITION (Wired Productions, per Pc, Ps5 e Xbox Series)
Aaero2, il sequel dell’acclamato sparatutto ritmico uni-direzionale Aaero già uscito nel 2024 su Pc e Xbox, è arrivato adesso su Ps5 con l’edizione definitiva Aaero2: Black Razor Edition, che include brani della casa Black Razor Records, etichetta interna a Wired, con i motivi tratti dal gioco Arcade Paradise e dalla colonna sonora prodotta dall’ex batterista dei Prodigy, Kieron Pepper, nonché le sonorità oniriche del progetto Lania Kea, dal nome fortemente evocativo (Immenso Paradiso in hawaiano, utilizzato per ribattezzare un superammasso di centinaia di migliaia di galassie). Pezzi che per i possessori di Aaero2 per Pc e Xbox sono disponibili sotto forma di due nuovi Music Pack. La musica è la vera anima del gioco creato da Mad Fellow, lo studio fondato da Dan Horbury e Paul Norris, ex di Codemasters, dove hanno lavorato a celebri serie automobilistiche, prima di passare nella fucina di FreeStyleGames/Activision Blizzard a contribuire a titoli come Guitar Hero e DJ Hero, particolarmente nelle corde del duo che, una volta messosi in proprio, si è appunto dedicato alla sua personale idea di rhythm game, a partire da Aaero, del 2017. A otto anni di distanza, Aaero2: Black Razor Edition, frutto della collaborazione con l’etichetta indipendente canadese Monstercat, specializzata nella musica elettronica, conduce ancora in un viaggio emozionante dove, mentre si sfreccia verso l’infinito e oltre, si plasma lo spazio, in un’adrenalinica sinfonia di nastri di luce, al ritmo vivace e martellante di una corsa sfrenata in mondi alieni, dove combattere mostri colossali sparando missili e cannonate cogliendo l’attimo nel momento giusto, in un’intensa esperienza sinestetica di interazione tra immagini e note dalla decisa personalità EDM (Electronic Dance Music). Il sistema di combattimento è stato completamente rinnovato, per aiutare a centrare gli obiettivi il più possibile in sincrono con la musica, così da ottenere ulteriori armi e scalare la classifica grazie ai punti guadagnati sfrecciando a bordo di una navicella che si muove su rotaie che hanno la consistenza svolazzante di un nastro e dalle quali non bisogna deragliare. Compito non irraggiungibile al livello principianti, in quanto astronave e guide sono unite da una sorta di attrazione magnetica, che si riduce aumentando il grado di difficoltà il quale, oltretutto, comporta il moltiplicarsi di nemici, scatenando un bailamme di proporzioni cosmiche. Il seguito ha introdotto il multiplayer a due giocatori, in modalità co-op o PVP, sia online e che in locale, per un’esperienza ancora più competitiva, nel susseguirsi di scenari fantascientifici che alternano una vena surreale a elementi pop, rielaborano gli sfondi anni Ottanta e Novanta della simulazione Arcade Paradise e immergono in paesaggi urbani cyberpunk dalle insegne al neon, fino ad affacciarsi su gigantesche strutture di arcane civiltà.

EARTH VS MARS (Relic Labs, per Pc)
Mettiamoci il cuore in pace. Dopo aver tanto brigato per cercare di raggiungere Marte favoleggiando di colonie indispensabili per garantire un domani all’umanità, sono stati invece i Marziani a venire da noi e con intenzioni non proprio buone. Inizialmente si sono accontentati di compiere razzie di uomini e animali. Adesso però, alla vigilia di una minacciosa invasione su larga scala per conquistare l’intera Terra, non resta che serrare i ranghi per difendere il futuro del pianeta. Specializzata in strategici in tempo reale, a cominciare dal clamoroso debutto con Homeworld nel 1997, la canadese Relic Entertainment (che nei suoi trent’anni di attività ha attraversato diverse stagioni, dopo essere stata acquistata da Thq nel 2004, quindi da Sega nel 2013, per tornare a essere indipendente nel 2024) con Earth vs Mars ha realizzato uno strategico a turni nel segno della tradizione, con la sostanziale novità delle meccaniche di ibridazione applicate alla creazione di unità di super soldati. Un obiettivo perseguito sfruttando una tecnologia capace di mischiare il dna degli uomini con quello degli animali, dallo scimpanzé al rinoceronte, dallo scoiattolo all’aquila, dall’orso all’axolotl, assorbendo le rispettive abilità. La fusione può coinvolgere tre animali, selezionando inoltre quali parti del corpo umano modificare o aggiungere, tipo le ali o la coda. Relic Entertainment aveva già esplorato qualcosa di simile nello steampunk rts Impossible Creatures (2003) liberamente ispirato all’Isola del dottor Moreau di H. G. Wells. Earth vs Mars rivela un sapore rétro, nel solco degli Advance Wars, e si dimostra molto adatto quale introduzione al genere per i principianti assoluti, grazie all’interfaccia semplice e intuitiva. Titolo d’esordio della branca Relic Labs, più piccola e dedicata ai progetti sperimentali, Earth vs Mars richiede un adattamento continuo perché i Marziani rispondono con le loro armi aliene estremamente avanzate e una misteriosa forza organica senziente scatenate contro l’esercito regolare umano e i mutanti potenziati dagli esperimenti di bioingegneria. Dispongono anche di veicoli, immaginati dagli sviluppatori come un’evoluzione delle automobili degli anni Cinquanta, rielaborate in maniera coerente con le altre caratteristiche della bellicosa civiltà del Pianeta Rosso. In generale le forme sono morbide e avvolgenti, al contrario delle unità terrestri dalle geometrie spigolose e affilate. L’omaggio al passato si riverbera dunque sulla stessa estetica del videogame, che ha naturalmente il fulcro nelle battaglie, il cui esito è influenzato anche dalle caratteristiche dei comandanti scelti per guidare le unità, soppesando di continuo la qualità delle forze in campo.

KENTUM (V Publishing, per Pc e console)
Con Per Aspera lo studio argentino Tlön Industries aveva accompagnato fin su Marte, nell’ultimo disperato tentativo di colonizzare il Pianeta Rosso, simulando la costruzione di città planetarie in situazioni spinte al limite, tra stupore, pericoli e senso di urgenza. Adesso in Kentum la catastrofe è ormai avvenuta e l’ultimo uomo sulla Terra si risveglia all’improvviso nell’anno 10.000 dopo Cristo, qualche millennio dopo l’avvio di un processo di criogenesi. Anzi, veramente nell’incidente provocato dall’impatto del modulo spaziale finito fuori orbita, Kent muore e rinasce come clone di sé stesso. Il team di Buenos Aires è ricorso dunque ancora una volta alla fantascienza per offrire la sua personale rilettura di un genere: in Per Aspera si trattava dei city builder, con Kentum sono invece i metroidvania in versione survival a raccontare il futuro dell’umanità appeso a un sottilissimo filo, ossia alla capacità di sopravvivere del malcapitato Kent. Un individuo che non avrebbe proprio niente di speciale, investito di una missione epocale, in seguito al brusco ritorno alla vita in una base di fortuna danneggiata e tutta da reinventare. È il lavoro che gli affida l’intelligenza artificiale della capsula, incaricandolo niente meno che di far prosperare di nuovo l’umanità, dandole una seconda chance sperando si dimostri più saggia e meno autolesionista. Essendo un dipendente sotto contratto, Kent non si può sottrarre all’impegno, sotto l’occhio vigile del suo supervisore robot, una spalla brusca e impertinente a far compagnia in un desolato orizzonte di solitudine. C’è ironia dispensata a piene mani nel taglio umoristico di un’avventura post-apocalittica, disegnata in 2D come un cartoon, che guarda comunque con simpatia il povero addetto alla manutenzione (privo di particolari competenze, in quanto il suo compito consisteva normalmente nello schiacciare un bottone a cadenza decennale e poi dormire per un periodo altrettanto lungo) e la sua voglia di resistere in un ambiente più che ostile, diverso da quello che aveva conosciuto, eppure bellissimo. La fauna e la flora si sono trasformate, nascondono pericoli, ma rimangono anche presenze affascinanti. Tra le armi fondamentali per sopravvivere c’è la conoscenza, da coltivare e aggiornare per adattarla all’inedita situazione. C’è molto da fare in quello che è stato ribattezzato un craftervania, dove il volonteroso Kent deve ricorrere a tutta la sua manualità e al suo ingegno per forgiare attrezzi e catene di automazione con cui far ripartire l’insediamento. Se compie un errore fatale, c’è pronto un altro clone a rimpiazzarlo, ma Kent preferirebbe non essere sostituito (con il rischio di perdere quanto faticosamente racimolato fin lì), per cui cerca di procurarsi il cibo e le risorse necessarie per andare avanti, facendo attenzione alle insidie che lo circondano. Nelle sue peregrinazioni porta a casa qualsiasi cosa possa venirgli utile, compreso qualche seme da piantare per ottenere una sorta di orto a portata di mano. Può scegliere come abbellire la base e fornirla delle macchine capaci di mettersi all’opera mentre Kent se ne va in giro a perlustrare, sfrecciando sull’hoverboard o volando con il deltaplano, su una Terra che riesce ancora a conquistare con il suo incanto. Il gioco ha già ricevuto un aggiornamento, con l’aggiunta di contenuti riguardo funzioni, macchinari, minerali disponibili e il corredo di Kent, in attesa che nel gennaio del 2026 arrivi anche il multiplayer per unire le forze con un amico e ribaltare insieme le sorti dell’umanità.

LUMO 2 (Numskull Games, per computer e console)
Nel 2016, quasi per caso come raccontato da Gareth Noyce nel diario di sviluppo sul suo sito, nasceva il puzzle platformer isometrico Lumo. Un modo per rendere omaggio all’età dell’oro dei videogame britannici, concentrata tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, con apripista quali Codemasters, Rare, Team17, DMA Design (l’odierna Rockstar North) o le non più esistenti Ocean Software e Software Projects, artefici di titoli memorabili, da Head over Heals di Jon Ritman ad Attack at the Mutant Camel di Jeff Minter. Non stupisce che questa ricca eredità abbia alimentato nel Regno Unito la vivace scena del retrogaming, coinvolgendo la curiosità dei giovani di oggi verso quei classici e la nostalgia di chi, ragazzo all’epoca, aveva vissuto direttamente il periodo pionieristico. Edizioni rimasterizzate per le nuove console e remake hanno così cercato di venire incontro ai desiderata degli uni e degli altri. Lumo aveva scelto invece una via diversa, riscontrando nel passato la fertile fonte di ispirazione per un gioco completamene originale, con il quale rivivere il fascino di un’avventura isometrica, ma in chiave moderna, in un appassionato tributo al Knight Lore (1984) dei fratelli Tim e Chris Stamper per l’home computer ZX Spectrum, made in Scotland, commercializzato dal 1982 al 1992. Il sequel Lumo 2, un metroidvania dove ci si sposta su piattaforme mantenendo al cuore l’esplorazione, si addentra ulteriormente lungo questa strada, con tanto affetto e un pizzico di umorismo, già evidente nei tratti del buffo protagonista (lo stesso di Lomo), disegnato sorridendo dello stereotipo del maghetto al quale il digital entertainment ha attinto a piene mani. Del resto sembra essere all’insegna dell’(auto)ironia anche il nome scelto da Noyce per la sua software house, Triple Eh? Ltd, che ha sviluppato il gioco. Una denominazione che sembrerebbe fare il verso alle grosse produzioni AAA, ossia Tripla A, aggiungendo l’interiezione Eh, con il punto interrogativo, usata quando non si capisce bene qualcosa e si chiede all’interlocutore di ripetere. In Lumo 2 i fan della gloriosa stagione a 8-bit si ritroveranno risucchiati dentro gli anni Ottanta, con a fianco del nostro avatar la mascotte Dizzy (strizzando l’occhio all’uovo antropomorfo della popolare serie dei gemelli Oliver), in un continuo riverberarsi di citazioni che diventano all’occorrenza anche accurata immedesimazione. Si aprono portali che danno accesso a tre mondi distinti, infarciti di enigmi e mini giochi. Il primo, a tema fantascientifico, comprende riferimenti all’avventura platformer Impossible Mission. Il secondo è incentrato su una casa inquietante da esplorare, con l’aggiunta di un richiamo a Prince of Persia. L’ultimo, nel dispiegare un ambiente desertico pieno di insidie, comprende una libera riproposizione di Ant Attack di Sandy White. Altri classici sono rievocati nei mini-giochi alla fine di ciascun mondo, mentre scovando gli stereo portatili d’antan si possono recuperare con destrezza le videocassette che invadono lo schermo, sbloccando così le tracce del jukebox dell’hub, ovviamente pescate da gemme dei videogame del passato. Al termine dei tre mondi, il maghetto, forte delle abilità conquistate, può tornare indietro a viaggiare, andando più a fondo nelle ambientazioni, disposte a rivelare i loro segreti, in un titolo dotato della massima rigiocabilità, guidando i passi del maghetto verso la luce . Una curiosità: Lumo 2 è tra i pochi videogame ad avere interfaccia e sottotitoli in gallese, la lingua parlata anche a Abergavenny, la città del Galles dove Noyce, originario di Southampton, si è trasferito. Per motivi di lavoro aveva vissuto anche a Helsinki, culla di Lumo, che in finlandese significa incanto, meraviglia, quello che si prova pensando alla magia dell’infanzia del digital entertainment e alla sua straordinaria evoluzione.

DARK QUEST 4 (Brain Seal Ltd, per computer e console)
Con il nuovo aggiornamento a tema invernale, si sono imbiancate di neve le terre di Dark Quest 4, quarto capitolo della saga fantasy ispirata al celebre gioco da tavolo HeroQuest, che dal suo debutto nel 1989 non ha smesso di affascinare anche il digital entertainment, con il primo adattamento risalente già al 1991. Lo studio indie britannico Brain Seal Ltd. è impegnato fin dal 2015, con l’uscita del primo Dark Quest, in un’originale, epica rielaborazione. Nel dungeon crawler a turni Dark Quest 4 torna il motivo dell’eroe che si erge contro le forze del male scatenate dall’avidità di uno stregone crudele. Stavolta - da soli o con gli amici in co-op online oppure in locale, fino a tre giocatori - possiamo formare una squadra di tre membri scelti tra dieci personaggi, in una riproposizione che riprende l’estetica di Hero Quest (con tanto di simulazione del tabellone a tessere, di dungeon master e di miniature virtuali) così come la sua articolazione in stanze successive, con l’obiettivo dichiarato di mantenere l’impressione di familiarità con il gioco da tavolo, però superandone le limitazioni grazie all’interattività multimediale del videogame. Sviluppati su più livelli collegati da rampe di scale e con una sintonia anche tematica gli uni con gli altri, i labirinti si estendono nelle viscere di un mondo cupo, popolato di trappole e oscure creature, responsabili della sparizione degli abitanti del villaggio, rapiti nottetempo dalle legioni mostruose agli ordini di Gulak, prono a eseguire le malvagie richieste dello Stregone Oscuro, diffondendo sgomento e terrore. La missione affidata alla compagnia, nell’anticipare alcune informazioni sul dungeon, aiuta a pianificare strategicamente le mosse, tenendo conto anche delle trappole, decidendo se aggirarle o rischiare affrontandole, in un continuo soppesare di pro e di contro. Ogni eroe ha le proprie abilità (gestite tramite un mazzo di carte) e il proprio stile di gioco, ma non ci si può solo affezionare a uno di loro, perché utilizzandolo troppo si riducono le sue forze e se muore in una quest, ritorna con uno stato di salute compromesso in quella dopo, mentre se rimane in riposo riacquista le energie. Un sistema messo a punto per favorire così la rotazione tra i personaggi, sfruttando al meglio le caratteristiche di ciascuno e aiutandoli a progredire. Tutte le strade si incrociano nell’Accampamento degli Eroi, dove allenarsi, sbloccare carte, allestire la squadra come in un tipico hub. Disegnato a mano, con una trama coinvolgente e immersiva, Dark Quest 4 presenta oltre 30 missioni, ma permette anche, con la modalità Creatore, di progettarne di inedite, a nostro piacimento, costruendo dungeon e immaginando storie, eventualmente condividendo quanto realizzato dalla community.

FATAL FURY: CITY OF THE WOLVES (Snk, per Pc, Playstation e Xbox)
Un finale del 2025 scoppiettante per Snk, risorta dalle ceneri e tornata assoluta protagonista della scena dei picchiaduro, al punto da avere conquistato, tra l’acclamazione generale, la statuetta di fighting game dell’anno ai Tga, sorta di Oscar dei videogiochi. Osannato dagli appassionati, il suo Fatal Fury: City of the Wolves si è dimostrato un grande comeback, per una saga storica che mancava dagli schermi da oltre un quarto di secolo, ma che adesso è di nuovo della partita, come accaduto per tanti vecchi cult dell’epoca, a cominciare da Street Fighter, una hit con cui condivide parte del dna. Gli episodi originali di entrambe le serie furono infatti ideati tra gli anni ‘80 e ‘90 con il contributo dello stesso autore, Takashi Nishiyama, passato da Capcom a Snk, insieme alla quale Nishiyama diede vita sia alla leggenda dei Fatal Fury sia a quella di The King of Fighters. Addirittura con un certo anticipo rispetto alla tabella di marcia secondo cui la prima stagione di contenuti scaricabili si sarebbe conclusa all’inizio del 2026, Fatal Fury: City of the Wolves ha già ricevuto anche Mr. Big, il quinto e ultimo lottatore extra inserito nel Season Pass 1. Si tratta di un volto noto ai fan di Snk, ripescato da un altro classico della casa giapponese, Art of Fighting, e riproposto in Fatal Fury: City of the Wolves attraverso un’attenta opera di adattamento, che riguarda ogni aspetto e dove fioccano le citazioni, dalle mosse all’arena, all’estetica, che riflette gli anni trascorsi tra i vari titoli e nella cronologia della saga. Dal roster iniziale di 17 campioni, nel corso dei mesi il cast ha così raggiunto quota 22 personaggi, comprese due ospitate in stile crossover proprio da Street Fighter che ricordano i tempi dei mitici Capcom vs. Snk e viceversa. Prima Ken, poi Chun-Li, in forma smagliante nell’affascinante veste da fumetto animato architettata per City of the Wolves, nei cui match può ancora vedersela come una volta con Mai Shiranui, l’eroina simbolo di Snk. Mentre lo studio lavora alla Season 2 che verrà svelata a gennaio, nel 2026 non mancheranno altre sorprese, all’insegna di un catalogo in pieno revival. Il 2025 ha sancito infatti il debutto su Steam anche della Neo-Geo Premium Selection, una nuova linea dedicata ai classici, di cui si attende la terza uscita dopo Real Bout Fatal Fury 2: The Newcomers e Kizuna Encounter: Super Tag Battle. Accurati restauri digitali affidati agli specialisti di Code Mystics che da un lato permettono di (ri)scoprire perle del passato nella migliore condizione possibile, dall’altro strizzano l’occhio alla rinascita del fervente panorama competitivo, introducendo funzionalità ad hoc, dall’online dotato di rollback netcode agli allenamenti iperdettagliati. Real Bout Fatal Fury 2: The Newcomers, il videogame che ha aperto la Neo-Geo Premium Selection, risale al 1998, l’età dell’oro del genere, ed è l’ultimo Fatal Fury supervisionato da Nishiyama nonché l’apice per così dire del filone old school, prima della completa revisione inaugurata da Garou: Mark of the Wolves (1999), con cui si contende oggi il titolo di episodio più amato. Tra le caratteristiche: i combattimenti su due livelli, con la possibilità di scansare i colpi muovendosi anche in profondità, una grafica in 2D al vertice dell’offerta arcade degli anni ‘90 e una lista composta da ben 23 lottatori, la più imponente nella storia saga superata solo ora da Fatal Fury: City of the Wolves.

SHE’S LEAVING (Perp Games, per Pc, Ps5 e Xbox Series)
Il protagonista è Charles Dalton, un analista forense specializzato nella lettura delle macchie di sangue sulla scena dei crimini, ossia in Bpa (Bloodstein Pattern Analysis). O meglio, la protagonista è Casa Haywood, teatro dell’indagine del survival horror in prima persona She’s Leaving degli inglesi Blue Hat Studios. Un piccolo team, formato da appena due autori, che hanno firmato un titolo di forte atmosfera, dichiaratamente ispirato a Resident Evil (e alla sua Casa Beneviento), ammirato anche per la creatività dispiegata nei puzzle inseriti in modo naturale nel dedalo di corridoi e stanze. Nella personalità di Dalton emergono invece, in filigrana, i tratti ossessivi di Dexter, ma si rispecchia anche la solitudine del giustiziere assassino di Miami, mentre da un’altra celebrata serie tv, True Detective, il videogame è debitore per la tensione emotiva espressa in dialoghi ridotti all’essenziale. Convinto che una sequenza di misteriose sparizioni sia opera di un serial killer, ipotesi non avvalorata dalla polizia, Dalton comincia a prendere in esame con la luce ultravioletta le superfici della villa edificata sui resti di una magione di epoca Tudor trasformata in struttura turistica. Vuole identificare eventuali tracce ematiche, ma presto prova la spiacevole sensazione di essere inseguito da qualcuno che evidentemente non vuole affiori la verità: un uomo mascherato, dalla stazza imponente, vestito con un impermeabile e che si esprime unicamente in gallese. Dal Galles provengono anche gli attori Geraint Rhys e Phil Rowe coinvolti nel doppiaggio. Armato unicamente di un taser, oltretutto dalla batteria piuttosto a secco, a Dalton tocca guardarsi le spalle, nascondersi, ascoltare ogni inquietante rumore e aguzzare l’ingegno per capire meglio ciò che sta accadendo. Con la decisione di violare i sigilli che vietavano l’accesso a un’area, si è tagliato i ponti alle spalle. La sua lotta, in contatto in remoto con la voce amica di Annabella che lo guida, si svolge su un duplice piano: quello reale con il brivido di un pericolo sempre più incombente e quello interiore nel quale sembra celarsi un dramma carico di rimorsi e di rimpianti. Casa Haywood reca impresse le ferite del tempo, in una decadenza opprimente che riflette il paralizzante immobilismo di chi rimane ancorato al passato e non riesce a voltare finalmente pagina, per ricominciare. Attraversato l’orrore, superato il buio c’è però la speranza di una redenzione.

DAVY X JONES (Parasight, per Pc)
Il capitano Davy Jones, che si era visto furoreggiare anche nei Pirati dei Caraibi alla guida dell’Olandese volante, la leggendaria nave fantasma in rotta perenne sugli oceani, non è più tra noi. O meglio, è passato a miglior vita moltiplicandosi addirittura per due: da una parte il corpo, ossia Jones, dall’altra la testa, ossia Davy, rigorosamente sotto forma di teschio, memore della simbologia dello Skull and Crossbones che campeggia sul Jolly Roger, la bandiera che sventolava sull’albero maestro delle flotte del terrore dei mari. Braccio e mente, separati eppure uniti dal comune obiettivo di vendetta per il tradimento subito, sono i protagonisti dell’atipico first-person shooter Davy x Jones, uscito con la formula dell’accesso anticipato e già oggetto di un importante aggiornamento, con l’arrivo della seconda parte. Permette di impersonare direttamente il ciarliero Davy, che rispetto a Jones, confinato negli abissi infernali, può librarsi in volo a combattere con la sua nave senziente Abby, per metà balena e per metà macchina da guerra. Artefice di questa avventurosa epopea dal taglio cinematografico è lo studio polacco Parasight di Cracovia, che già si era rivelato appassionato indagatore del folclore nel suo precedente titolo, l’action-adventure Blacktail, dove veniva ricreato il mito di Baba Yaga trasposto in un villaggio medievale slavo. Con Davy x Jones è invece l’immaginario occidentale a essere esplorato, attraverso un approccio originale a favolose storie di pirati. Il luogo del riposo eterno della marmaglia si chiama Scrigno, a evocare, certo, i tesori bramati da pirati e corsari, ma anche l’espressione lo scrigno di Davy Jones, cupa metafora del fondale marino, tomba dei marinai affogati e dei relitti naufragati. Non c’è invece requie nel frenetico brigare di Davy e di Jones, sulle tracce di Barbanera, al secolo il realmente esistito Edward Teach, archetipo dei predoni lanciati all’arrembaggio. Grazie all’introduzione che funziona da tutorial e all’impostazione intuitiva, ci si getta subito nella mischia, con un progressivo potenziamento degli attacchi fino a sferrarne di devastanti, in un susseguirsi di citazioni ben inserite nel contesto, spettacolare e vivacissimo, ricco di trovate. Spicca il gigantesco Kraken, pescato dalla mitologia norrena, mentre si viaggia in un arcipelago, dove, un po’ come nei gironi danteschi, sono confinate le anime dei dannati, pronte a risvegliarsi al richiamo di Davy e di Jones che non ne vuole proprio sapere di appendere l’uncino al chiodo, in una narrazione fascinosa, intinta di umorismo. C’è una correlazione stretta tra le due metà del capitano perché, se Davy dalla tonda della fedele, colossale Abby riesce a vincere una battaglia, Jones ne esce rinfrancato, con maggiori abilità. In caso contrario si scatenano furenti tempeste. A sua volta Jones nelle sue peregrinazioni alla ricerca di preziosi manufatti ha l’opportunità di riscattare anime e di favorire l’ascesa di Davy, in un solidale sostegno reciproco, proprio come due facce della medesima medaglia.

LOST IN THE OPEN (Whisper Games, per Pc)
È uno dei topos narrativi più antichi della letteratura, dal mito alle tragedie greche, dalle fiabe alle saghe medievali: il legittimo sovrano spodestato a tradimento e costretto alla fuga per salvarsi la vita, meditando propositi di riscatto per vendicarsi dell’ingiustizia subita e ristabilire il naturale ordine delle cose. Un escamotage narrativo per mettere in luce la fragilità del potere, la corruzione delle corti, l’ambizione smodata come motore di azioni esecrabili, mentre il re, spogliato di punto in bianco delle sue prerogative, si scopre vulnerabile, impara a conoscere meglio il suo popolo, dimentica qualsiasi arroganza e riemerge dalla polvere trasformato in un vero eroe. Lost in the Open, titolo di esordio di Black Voyage Games uscito con la formula dell’accesso anticipato, parte dalla congiura ordita contro il protagonista, re Nrvesk, un tiranno crudele e oppressivo, per seguirne poi i passi nel buio della sua nuova condizione di clandestinità, sopravvissuto a stento a un agguato mortale sferrato da colui che considerava un fedele alleato. Team internazionale sparso tra l’Europa, l’America e l’Asia, formato da un ex sviluppatore di Toca Boca, un art director messicano (di Tijuana), il compositore di Parkour Legends e un animatore 2D dalle esperienze maturate lavorando con studi giapponese, Black Voyage Games si addentra tra le fosche atmosfere di un fantasy dove gli elementi magici sono tutt’altro che preponderanti, a favore invece di un affresco radicato nell’immaginario dell’età di mezzo, a cominciare dall’estetica dei menu, elegantemente cesellata come i capolettera di raffinate miniature. Lost in the Open è un gioco di ruolo tattico dall’anima roguelike, con combattimenti a turni. Inseguito da chi vorrebbe eliminarlo una volta per tutte, re Nrvesk viene messo di fronte a scelte difficili, tentando di soppesare i pro e i contro di decisioni comunque in bilico a pochi passi dal baratro. Che strada prendere? Fidarsi o meno dell’aspirante recluta? Quali i vantaggi e i rischi dell’introdursi furtivamente nell’accampamento nemico? È meglio pagare il riscatto e liberare un potenziale amico o tenere i soldi per acquistare un’armatura migliore o una spada più letale? Bisognerà comunque affrontare le conseguenze di ogni azione. Le tappe del viaggio sono scandite da nodi, però casuali, che cambiano di turno in turno. Tra le variabili, anche le condizioni del terreno, che influenzano le regole dei combattimenti e che possono suggerire di evitare di inoltrarsi in certe zone della mappa. La vittoria porta con sé remunerazioni e l’acquisizione di abilità, nonché potenziamenti delle truppe che il sovrano ingaggia, pescando tra arcieri, vichinghi e furfanti vari, personalizzandone le caratteristiche. Il disperato incedere di Nrvesk è anche un percorso di rimorso e di espiazione, per recuperare non solo un trono, ma la propria umanità.
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Una lettera da parte delle attrici molestate al Teatro Due
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