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Lo stupro di Reggio Emilia

Minori e violenza, i ragazzi: «A scuola se ne parla poco»

Minori e violenza, i ragazzi: «A scuola se ne parla poco»

di Mara Varoli e Anna Pinazzi

04 Febbraio 2022, 03:01

Sono giovanissimi, ma le idee le hanno chiare, eccome. Sanno perfettamente che «la violenza è uno schifo» come afferma serio Francesco di 16 anni e «che esagerare con gli alcolici è dannoso e si perde il controllo».

Sanno anche che diventare spettatori – o protagonisti – di episodi spiacevoli e violenti è davvero un attimo: «Fuori dalle discoteche mi è capitato spesso di trovare ragazzi ubriachi, tante volte mi sono sentita a disagio e intimidita - spiega una ragazza all’uscita del Melloni –. Non bisogna rinunciare al divertimento, ma si può anche evitare di esagerare».

Se si chiede loro, però, se hanno idea di cosa sia successo alla quindicenne di Reggio che ha denunciato di essere stata violentata da un gruppetto di coetanei (tutti della stessa classe di un istituto superiore reggiano: uno è stato arrestato, due indagati a piede libero) rispondono di no, che non hanno sentito parlare della vicenda. Chi invece non cade dalle nuvole e dice di aver saputo di questa brutta storia, subito dopo aggiunge: «Ma non mi sono soffermato troppo sulla notizia». E si percepisce anche il velo di imbarazzo che accompagna l'ammissione.

«Non conosco il fatto, a scuola non ne abbiamo parlato» afferma stupito Marco, seduto sul suo motorino blu parcheggiato fuori dal liceo.

Perché l’informazione - soprattutto su temi così delicati - passa anche per le aule, per la voce di un professore che «toglie venti minuti alla spiegazione di Manzoni - fa sapere Alice - e decide di guidarci verso un confronto, un dialogo. In generale - continua la ragazza - durante le assemblee parliamo di temi come la violenza, la parità di genere, l’abuso di droghe o alcolici, ma quando poi succedono cose così gravi, non ci si sofferma, si passa oltre e la mattinata procede normalmente».

Accennate le circostanze - drammatiche - della violenza alla quindicenne reggiana, le conclusioni e le riflessioni si succedono una dopo l’altra, come un fiume in piena.

«Per quanto ancora dovremo sentire parlare di violenza?» si lascia scappare arrabbiata Laura, «non ci si può fidare neanche degli amici - continua - non esistono poi scuse, attenuanti. Le circostanze non cambiano nulla».

«Questi episodi ci arrivano come lontani anni luce da noi - commenta Filippo Maria, davanti al Romagnosi -, poi basta girare l’angolo e si è testimoni di scene assurde». Anche lui è convinto che il confronto sia importante: «Bisogna parlare di queste cose, non rimandare con un “ne discuteremo un’altra volta”».

Non mancano certi racconti di «serate tipo» decisamente sopra le righe: «Una volta, prima del Covid - ricorda un diciassettenne - ho dovuto soccorrere un mio amico: era steso su un divanetto di una discoteca e non rispondeva più. Ho chiamato subito i genitori e poi l’ambulanza. Non è successo nulla di grave, ma ho preso un bello spavento».

Seguono i commenti di alcuni amici: «Però è capitato a tutti di essere un po’ brilli» dice uno, «a me è capitato di alzare un po’ troppo il gomito, ma non è successo nulla di pericoloso» aggiunge un altro. La chiosa arriva da Maria Eugenia: «Divertirsi non significa perdere il controllo. La mancanza di lucidità dovuta all’abuso di alcol o sostanze non giustifica alcun tipo di violenza». Anna Pinazzi

La psicologa

«Il ricorso ai stupefacenti e all'alcol è anch'esso un segnale di disagio giovanile - spiega Sabrina Ferrari, dirigente psicologo psicoterapeuta del Servizio di neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza dell'Ausl di Parma -. La pandemia ha dato un'accelerata, aggravando le situazioni di vulnerabilità: in generale l'incertezza e il repentino cambiamento della vita generato dalla pandemia hanno inciso sull'aumento del disagio nei giovani e sul numero delle richieste di aiuto ai servizi sanitari e sociali».

Il consiglio alle famiglie dei tre ragazzi?

«È importante fermarsi e capire cosa è successo. Bisogna creare degli spazi di riflessione anche per ricostruire il significato dell'atto violento. Spazi per capire quali fattori individuali, famigliari e socio-culturali hanno alimentato questo tipo di agire in ciascuno di questi ragazzi. E' importante aiutare le famiglie di questi ragazzi a non cadere nel rischio di negare quanto è successo e a sostenere i loro figli nel riconoscimento delle proprie responsabilità. Il coinvolgimento in questo è importante sia per chi ha compiuto il fatto sia per la vittima in un'ottica di giustizia riparativa. La comunità non deve lasciare solo nessuno. Questi eventi ci invitano a riflettere, per capire cosa stiamo costruendo intorno ai giovanissimi».

E alla famiglia della vittima?

«La violenza sessuale è un evento traumatico, sconvolgente per la vittima; pensiamo inoltre a quale impatto può avere su una giovanissima donna che sta scoprendo il proprio corpo, la propria sessualità e le relazioni romantiche. Uno dei fattori protettivi che aiuta con il tempo a rielaborare l'evento traumatico è la presenza di genitori che siano di supporto, per aiutare la ragazza con la vicinanza, la comprensione e la validazione dei suoi vissuti. È bene mantenere quegli elementi della quotidianità che possono favorire il senso di serenità e protezione. La famiglia inoltre ha una funzione importante di accompagnamento nella gestione di tutto quello che segue l'evento fuori dalla famiglia: si pensi ad esempio alla "macchina" giudiziaria o all'impatto mediatico».

Quale cura per la 15enne?

«C'è la cura in senso sanitario: la necessità di affrontare le conseguenze psicologiche e anche a volte fisiche dell'evento con figure professionali che possono avviare un percorso di cura e rielaborazione, con i tempi e i modi costruiti sui suoi bisogni. C'è la cura in senso ampio che avviene in modo integrato con l'apporto fondamentale della famiglia, della scuola, delle istituzioni: la cura è responsabilità di tutti, che devono far rete intorno alla ragazza. Ci vuole un tempo di ascolto che rispetti i vissuti della vittima rispetto alla rivisitazione di quanto è successo». Mara Varoli

La sociologa

La pandemia ha peggiorato il disagio giovanile?

«Eviterei la "trappola" del meccanismo di causalità - risponde Chiara Scivoletto, professoressa ordinaria di Sociologia giuridica, della devianza e del mutamento sociale e direttrice del Cirs -. I temi da indagare sono quelli della capacità dei ragazzi di auto-regolare le proprie emozioni ed esperienze, misurando sia la responsabilità che i rischi che derivano dalle proprie azioni. Occorre anche considerare che il disagio dei giovani non è un fenomeno nuovo, anzi direi che una certa cultura prevalente lo indica proprio come un aspetto coessenziale alla crescita. La situazione pandemica rappresenta certo un evento critico che ha acuito tutte le forme di disagio, come pure le diseguaglianze sociali. I dati di ricerca sono concordi nel confermare che la popolazione minorile e giovanile ne subisce largamente le conseguenze specialmente correlate alla interruzione o riduzione della frequentazione di luoghi fisici di aggregazione».

Modelli sbagliati?

«La violenza di genere è frutto di molti fattori insieme: ha radici di tipo culturale, difficili da estirpare ed è legata saldamente alle dinamiche di distribuzione del potere. La grande attenzione che oggi giustamente diamo a questo problema sta agevolando la comprensione delle molte sfaccettature della violenza del maschile sul femminile, a ogni livello (non solo fisico, ma pure psicologico ed economico). Occorre considerarli tutti e considerare la necessità della prevenzione, che passa soprattutto per la nostra capacità di essere per i bambini ed i ragazzi (e anche per noi stessi adulti) una comunità educante».

C'entra l'educazione?

«Il tema educativo è centrale in questo contesto: educazione alla differenza, alla affettività, al rispetto di sé e dell’altro. Parlerei anche di processi di socializzazione degli adolescenti, in una dimensione che è privata e pubblica allo stesso tempo. Credo anche che si debba dare maggior credito alla soggettività degli adolescenti, che sono una componente strutturale delle nostre società, e finalmente disporci a considerarli soggetti capaci di partecipazione sociale e non mere appendici acerbe degli adulti».

Di cosa si deve preoccupare la società?

«Più che di società, astratta, parlerei piuttosto di agenzie formali ed informali e di pratiche, iniziative ed interventi, auspicabilmente coordinati e strutturati. Questi fatti competono non solo alle agenzie del controllo formale (polizie, magistrature), ma riguardano anche la scuola, le famiglie, le associazioni, i gruppi dei pari: i mondi vitali in cui i ragazzi socializzano, crescono, fanno esperienze, cambiano. L’impegno comune su cui convergere credo sia sempre quello della prevenzione». M.V.

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