×
×
☰ MENU

DELITTO DI VICOFERTILE

La «fabbrica» ancora rifugio di vite randage

La «fabbrica» ancora rifugio di vite randage

di Luca Pelagatti

06 Febbraio 2022, 03:01

Sembra rimasto tutto come prima. La rabbia sfogata con la vernice sui muri, bottiglie vuote, cibo ammuffito, mattoni rotti, odore acre e sporcizia. Tutto come prima se non per due dettagli che ci ricordano che, purtroppo, non si può mai tornare indietro: sulla cancellata affacciata su via Martiri della Liberazione spicca quel lenzuolo ormai un po' logoro con la struggente scritta: «Non smettere di brillare. La giustizia sarà fatta. Vola in alto piccolo angelo. Ti vogliamo bene».

E poco più in la, sul muro, un'altra frase intrisa però di violenza: «Mallardo devi morire». A pensare che quelle parole raccontano di una vita finita di colpo e di un'altra buttata via monta dentro un grande magone.

Ma, d'altra parte la vecchia fabbrica di Vicofertile, quella dove la notte del 5 maggio scorso Patrick Mallardo ha ucciso con 24 coltellate il 18enne Daniele Tanzi colpevole, si fa per dire, di avergli portato via la fidanzata ragazzina, è sempre stato un posto dove si è respirata aria di malasorte, dove pareva aleggiare un destino maligno.

Lo era prima, quando dopo un lungo abbandono si era trasformato nel campo giochi verticale dei ragazzi della zona che andavano a sfidarsi nel parkour per sentirsi un po' come i loro coetanei delle metropoli ma senza capire che tra quei ferracci arrugginiti basta un salto sbagliato o un piede messo male. Allora il gioco diventa tragedia.

E lo è stato quella notte maledetta quando Daniele e Maria Teresa sono andati alla «fabbrica», questo il soprannome dato dai ragazzi che la bazzicano, per inventarsi una loro privatissima e scalcinata bolla di felicità. Non potevano immaginare che l'alba non li avrebbe visti insieme.

Da quella notte sono passati poco più di otto mesi, il processo a Patrick è nel frattempo iniziato nelle austere aule del tribunale ma le vecchie mura della fabbrica a rivederle oggi, non sembrano avere alcuna memoria di tutto quel dolore.

Per rendersene conto basta infilarsi oltre la rete metallica ossidata che dovrebbe blindarne l'accesso: non bisogna neppure spostarla. L'ingresso, si fa per dire, è spalancato.

Certo, dopo il delitto qualcuno ha provato volenterosamente a chiuderne le vie d'accesso, a tamponare le finestre. Ma se non si ha un tetto dove tornare, se un materasso per terra sembra già una promessa di conforto e protezione non bastano certo due mattoni o qualche pezzo di lamiera per sigillarne la porta.

«A dire il vero la situazione sembra essere un po' migliorata di recente», racconta una residente della zona che parla di un viavai meno sfacciato, di presenze meno invadenti. E lo conferma anche un piccolo dettaglio rivelatore: la recinzione del parco Gino Cervi, a duecento metri sul retro del mulino, non è più piegata: significa che meno persone passano di li ogni giorno e ogni notte per raggiungere «la fabbrica».

«Si, prima della tragedia c'erano più giovani della zona che si andavano a nascondere tra quelle mura per vivere il brivido del proibito, per farsi le canne – spiega un altro abitante che quel prato lo bazzica insieme al cane. - Adesso di ragazzini che salgono fino sul tetto per una sfida tra di loro e una bravata se ne vedono meno».

Bene, è forse un primo passo. Ma infilandosi nei varchi aperti, spingendo la testa tra i mattoni spaccati si capisce che qualcuno che chiama «casa» il vecchio edificio c'è ancora. E lo vive proprio come si vive una abitazione. Ed ecco allora, sparse in giro, le confezioni del supermercato svuotate, le bottiglie di birra rotolate negli angoli, i cartoni di vinaccio da pochi euro. Alcuni vetri sono opachi per la polvere ma altri sono ancora puliti e trasparenti a raccontare che qualcuno se li è scolati da poco.

A voler proprio cercare una differenza col passato si può forse dire che per entrare si deve fare un po' più fatica: chinarsi per infilarsi sotto una lastra di metallo staccata dai tasselli che la inchiodavano alla parete, farsi piccoli per scivolare in un buco ricavato in un muro. Ma poi una volta dentro i giacigli di fortuna e l'odore di vita randagia sono sempre gli stessi.

«Il solo modo per eliminare definitivamente il problema sarebbe abbattere l'edificio – taglia corto uno che abita a due passi. - Già è assurdo pensare che per vedere la situazione migliorare almeno un po' si sia dovuto attendere la morte di un ragazzo. Sarebbe insopportabile pensare che qualcuno si debba ancora fare male per risolverla la faccenda una volta per tutte».

Una risposta, intanto non c'è. Restano, dolorosamente un mazzo di fiori, il lenzuolo con il ricordo del «piccolo angelo» e quella acide minacce rivolte a chi quella notte ha travolto due esistenze. Quella di Daniele e anche la propria. Soprattutto, resta la scritta sul muro sopra il pertugio attraverso cui si infilano i fantasmi della «fabbrica»: questo è l'inferno. A pensarci non è poi una definizione così sbagliata.

Luca Pelagatti

© Riproduzione riservata

CRONACA DI PARMA

GUSTO

GOSSIP

ANIMALI