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C'era una volta

La «picàja», quando il cibo diventa poesia

La «picàja», quando il cibo diventa poesia

di Lorenzo Sartorio

21 Febbraio 2022, 03:01

Si chiamava Nardo, abitava in un «granär äd Strè Nóva» con la moglie che, per guadagnare qualche soldo, faceva la lavandaia. Nardo, muratore, di famiglia poverissima (il padre era un «bianchén»), non aveva ancora smaltito, anche se ci riferiamo a metà anni Cinquanta, la fame patita durante la guerra. Perciò, poveretto, di fame, ne aveva ancora tanta anche perché era un omone alto e grosso con uno stomaco lungo dove la fame, quando faceva sul serio, urlava come una matta.

A mezzogiorno, doveva farsi bastare una gavetta con il minestrone che gli preparava la moglie, oppure un panino con la mortadella che mangiava, seduto su una pila di mattoni, insieme ad uno di quei «casonér» che, a quei tempi, trasportavano la «rotura» delle case che venivano demolite con il carro trainato da un cavallo. Un bel giorno, a Nardo capitò un’occasione irripetibile per fare pace con il suo stomaco quasi sempre vuoto. Si sposava un suo lontano parente e, quindi, era stato invitato al matrimonio ma, nello stesso giorno, si festeggiava anche la quasi ultimata costruzione di una casa. E, per tradizione, i muratori, quando arrivavano al tetto, issavano un fronzuto ramo di un albero, oppure la bandiera tricolore, a volte, anche quella rossa del Pci se la casa in costruzione doveva ospitare una cooperativa oppure una delle tante «Case del Popolo» di guareschiana memoria.

Oltre la bandiera, i muratori era usanza che festeggiassero anche con un lauto pranzo offerto dal proprietario della casa. Nardo, al pranzo nuziale, non si fece certo pregare divorando tutto quello che c’era da divorare. Fatto il pieno, in bici, nel pomeriggio, arrivò nella la trattoria dove i colleghi festeggiavano la nuova casa. Il nostro fece onore a tutte le portate terminando con svariati bicchierini di nocino. Tornato a casa un po' traballante ma, soprattutto pieno, si buttò sul letto, ma, alla notte, fu assalito da fortissimi dolori di pancia... La moglie, preoccupata, chiamò la «Pubblica» che trasportò il marito al Pronto Soccorso dove, quella notte, era di guardia un parmigianissimo medico che visitò il povero muratore. Uscito dall’ambulatorio e, rivolto alla moglie che chiedeva notizie del marito, il dottore le disse: «sjòra, l’éra pjén cme n’ov. I l' àn limpì cme 'na picàja. Adésa a l’èmma spomè con 'na lavanda gastrica. Mo par 'na stmana ch' la gh' daga un brodén a mezdì e un pòmm ala sira». Da quel momento, Nardo, cambiò nome e, per tutti, fu «Picàja» che, però, nulla aveva a che fare con l’omonimo «Picàja», «cibàch» (calzolaio) oltretorrentino, assiduo frequentatore di osterie nonché abile cacciatore di «lévri da còpp» (gatti).

«Picàja», fu pure il nome di una frequentata osteria che si trovava di fianco alla chiesa di San Giuseppe, in borgo Paglia. La vecchia proprietaria, trasferitasi a Lugano, cedette l’osteria alla nipote, figlia del campanaro della vicina chiesa così, da «Picàja», l’osteria prese il nome di «Campanära». «Per una modesta porticina - così descrive il locale Aldo Emanuelli nel suo ''Osterie Parmigiane'' (1924) - si entra nella vetusta osteria che è composta da una oscura camera quadrata ove solo nella bella stagione aria e luce vi si infiltrano. Dietro la camera, un cortile con una tettoia laterale sotto la quale è un quadro ove sono successivamente segnati i premi numerosi, che la Società Colombofila la Veloce, la quale ha posta nell’Osteria la sua sede, ha guadagnato nelle gare dell’annata. Quanto ora è mutata da quella dei vecchi anni la vecchia osteria! Quando sciami di gaie sartine, di popolane procaci, convenivano ai balli della Picàja! Oggi, invece dell’allegro cicalio non vi si ascoltano, specie nelle ore pomeridiane, che notizie di voli di piccioni, di premi e di gare».

Emanuelli, però, si consola rassicurando che nel locale «erano rimaste alcune buone tradizioni: un eccellente vino bianco asciutto, spumante che scende come un nettare nello stomaco e la popolare canzone della Picàja» che, in seguito, divenne una canzone - simbolo della parmigianità: «Tortoréla» («Un giorno Tortoréla non sapendo cosa far…»). Dal punto di vista gastronomico, a Parma, quando si dice «picàja», bollita o arrosto, un tempo vanto di tutte le «rezdóre» di città e del contado, si allude alla «cima ripiena». La «rezdóra», per preparare la «picàja», si faceva dare dal macellaio il sottopancia di vitello tagliato a tasca che poi riempiva con un delizioso ripieno. Quindi, la «tasca», veniva pazientemente cucita con ago e filo «cme un zachètt» e, con la massima cura, messa al forno o fatta bollire nel brodo. Un'antica ricetta del ripieno della «picàja» (suggerita da un’ anziana cuoca nata proprio in «bórgh Paja») prevede: pane grattato «in ca'», parmigiano stagionato a dovere, uova freschissime, pepe, sale, un'idea di noce moscata. In talune ricette figurano anche piselli freschi, prima fatti scottare, carote e sedano tagliati a tocchetti . Una volta riempita e cucita, la «tasca», la si fa bollire in acqua con l'indispensabile accompagnamento degli «odór» (sedano, cipolla, carota) ed, allora, la cucina profuma di vita e di festa. La si porta in tavola tiepida, ma anche fredda, affettata, con contorno di salse adeguate. Stessa sorte della «picàja» poteva spettare alla «galén’na» o al «capón» i quali venivano riempiti con il medesimo ripieno. Per quanto concerne i contorni dei lessi («picàja» compresa) la tradizione suggerisce le immancabili salse: «ròssa» di triplo concentrato di pomodoro, lavorata con brodo ristretto, un pizzico di zucchero e altri ritocchi, «vérda» di prezzemolo con aggiunta di pane bagnato nell’aceto nostrano, un uovo sodo e, in talune versioni, anche un paio di acciughe, il tutto amalgamato con olio extravergine d’ oliva ed un pizzico di sale.

Altre salse che potevano comparire nelle tavole delle «rezdóre» più esigenti erano la «dólsa-fòrta», sempre a base di verdure, dove giocano sapientemente olio, aceto e zucchero, quella di rafano, («crén»), oppure quella «äd bonjèrba e aj» (prezzemolo e aglio)… «'na robén’na alzéra!».

Lorenzo Sartorio

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