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Covid, due anni dopo il paziente zero

«Che choc i medici in tuta e casco dentro casa. Li sogniamo ancora»

«Che choc i medici in tuta e casco dentro casa. Li sogniamo ancora»

di Giuseppe Milano

22 Febbraio 2022, 03:01

Per lui il lockdown iniziò esattamente il 22 febbraio sera, due settimane prima che a Parma e in tutta Italia. E fu un vero incubo perché «ancora non sapevamo nulla di cosa stesse succedendo e nessuno sapeva come aiutarci». Due anni fa a Codogno, paese del basso lodigiano, viene individuato il paziente zero, il primo malato di Covid d'Italia. Da lì partì la pandemia che poche ore più tardi colpì Parma con i primi casi e tutto il paese con migliaia di lutti. Testimone di quelle ore drammatiche nel centro lombardo anche il parmigiano Francesco Collini. 51 anni, ingegnere, sposato con due figlie di 17 e 15 anni, vive a Codogno da una quindicina d'anni e quelle ore di paura le ricorda ancora molto bene.

«Il 21 ero al lavoro quando è circolata la voce del primo positivo, subito ci hanno subito mandato a casa - racconta oggi - Fin lì però solo un po' di paura, il giorno dopo il primo choc». Choc perché «sotto al mio palazzo arrivarono due auto con a bordo cinque persone completamente coperte da capo e piedi da tute, visiere e mascherine. È una immagine che ora conosciamo bene, ma allora in casa ci fu il panico. Sono sceso a chiedere che cosa stessero facendo, non avevo nemmeno capito che erano dei medici, e mi dissero che erano lì per controllare una persona che aveva avuto contatti con il paziente zero. Erano venuti a fare il classico tampone». Ma allora era tutto nuovo e «impressionante. Per i giorni a seguire non prendemmo più l'ascensore ed aprivamo le maniglie del portone del palazzo con i gomiti. Avevamo la fobia di infettarci».

In più l'isolamento con il mondo esterno. «C'erano i blocchi stradali attorno ai dieci comuni della zona rossa. Eravamo blindati - racconta ancora Francesco Collini -, ma nessuno aveva voglia di uscire di casa anche se ancora non c'era l'obbligo di stare chiusi. All'inizio poi c'era un solo supermercato aperto, a Casalpusterlengo, e per fare spesa ci mettevamo ore e ore». Il tutto «inizialmente con delle mascherine vecchie che avevo trovato in uno scatolone in magazzino. Solo più tardi cominciò a distribuirle la protezione civile. Ce le mettevano nella buca delle lettere. Erano un paio di chirurgiche. Di Ffp2 nessuna traccia».

L'ultimo flash della memoria è però dell'estate del 2020. «Io e mia moglie allora capimmo davvero cosa significava essere di Codogno. Prima avevamo fatto pochi viaggi e solo al mare, parlando con alcune persone incontrate in spiaggia, leggemmo il loro terrore quando seppero da dove venivamo. Due fecero addirittura un passo indietro quasi temendo di farsi contagiare. Non fu molto piacevole». Una situazione, conclude Collini, «che non si è per fortuna più ripetuta». Ma il ricordo più nitido resta «proprio quello dei medici in tuta bianca dentro casa. In famiglia li sogniamo ancora. Anche se pensiamo anche al loro coraggio. A quanti si sono infettati in quei giorni e nei mesi seguenti per aiutare gli ammalati. E spesso pure senza mascherina».

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