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Mitiche burle

Quel Carnevale di una volta

Quel Carnevale di una volta

28 Febbraio 2022, 03:01

Viva viva Carnväl / la poiana insimma al päl / la ciama carnväl. Carnväl al vól mia gnir / e la poiana la vól morir! / Läsa ch’la mora a gh' farèmma ‘na ca’ nóva / un piat äd polénta / un piat äd confét / sära l’uss e andèm’ma a lét». Era l’antica filastrocca che accompagnava il tradizionale falò di Carnevale dove i contadini bruciavano la «Poiana» e suo marito, il «Carnevale».

Profondi ed antichissimi erano i significati magico esoterici dei falò, da quello dell’Epifania, a quello della notte di San Silvestro (31 dicembre), a quello dell’ultimo giorno della «Merla» (31 Gennaio) a quello della «Rozäda äd San Zvàn» (23 Giugno). Come se i nostri vecchi volessero esorcizzare le loro paure e volessero affidare le loro speranze alla sacralità del fuoco purificatore. A dare inizio ai falò, come un segnale che valesse anche per i vicini villaggi della vallata, era il suono sordo della «lumäga» azionata dal «lumagär», solitamente il più anziano, che aveva il compito di fare accendere le fiamme come pure quello di radunare gli spalatori quando si abbattevano copiose nevicate ed i paesini rischiavano di rimanere isolati. La «lumäga», era un conchiglione di lunghezza intorno ai 25-30 centimetri con il diametro di circa 15. Ed allora il «deputato stradale» («lumagär») riuniva gli uomini soffiando ripetutamente nella conchiglia. Poi attribuiva agli spalatori i rispettivi incarichi circa i giorni di lavoro, il tratto di strada da sgombrare e, ovviamente, il compenso. La «lumäga», retaggio dell’epopea delle emigrazioni dei nostri montanari in Corsica o in Francia, solitamente, era custodita dalla famiglia più agiata ed importante del paese. Carnevale, poteva essere imbiancato o addirittura coperto di neve, ma poteva anche portare il profumo dei calicantus e delle prime violette che occhieggiavano nei giardini nascondendosi tra le foglie secche.

Una cosa comunque è certa al di là delle condizioni atmosferiche ed è quella che il Carnevale, in tutti i tempi, ha sempre emanato il suo vero profumo che è quello dei dolci fritti. Una volta, sia nelle strade aristocratiche che nei borghi popolani, in prossimità del Carnevale, dalle finestre, usciva fumo di fritto «in-t-al dolégh» bollente dove sguazzavano le chiacchiere («il ciac’ri»), tipica goloseria carnevalesca diffusa un po’ in tutta Italia e, ovviamente, anche da noi. Ma perché le avranno chiamate proprio cosi: «chiacchiere»?

La risposta più plausibile e, forse più vicina alla realtà, è data dal fatto che questi dolci sono preparati dalle «rezdóre» e, quindi, tra un impasto e l’altro, il gineceo, attorno al tavolone di cucina, chissà quante chiacchiere avrà fatto… Ogni «rezdóra», come d'altra parte accade per gli anolini, custodisce la sua personalissima ricetta per fare le «chiacchiere» più buone del mondo. C’è chi, all’impasto, aggiunge vino bianco secco, chi passito, chi marsala, chi addirittura grappa, infine c’è chi, con un tocco molto esotico, aggiunge rhum.

Fatto sta che, al di là dell’ingrediente alcolico, la «chiacchiere», sono pressappoco tutte eguali in fatto di forma anche se la maggior parte delle cuoche, con le strisce di pasta, ama formare un fiocchetto che, una volta fritto nell’olio o nello strutto, viene spolverato con zucchero a velo e conservato in enormi terrine coperte da un candido «boràs» (canovaccio) affinché i dolci casalinghi mantengano la loro fragranza. La tradizione dei dolci carnevaleschi viene da molto lontano Le «rezdóre», parmigiane per Carnevale, a seconda delle varie zone del territorio, preparavano anche i tortelli ripieni di marmellata brusca «äd brùggni», oppure con il ripieno di castagne (in montagna) o di amaretti in città. In alcune famiglie vi era anche l’usanza degli «sgonfietti» dolci, ossia palline di pasta fritte nello strutto e poi cosparse di zucchero.

Un altro dolce parmigiano di Carnevale, tedoforo della primavera, è il «bosilàn» (la ciambella) molto apprezzata in questa stagione in quanto le galline cominciavano a fare molte uova e quindi le donne erano più invogliate a creare cibi salati (frittate) e dolci ciambelle) con l’intento di onorare il loro pollaio.

Ovviamente, la fine più indicata della ciambella era quella di intingerla in un bicchiere di malvasia quando, nel giorno di Carnevale, si «andava a parenti» fuori porta per la gioia dei bambini che, tra coriandoli, fischietti e altre diavolerie, attendevano trepidanti il momento in cui nei campi, poco dopo il tramonto, si bruciava « al pajón», ossia il tradizionale falò di carnevale. Alcune scenette carnevalesche, tipicamente parmigiane, che rispecchiano l’amenità ed il grande senso di umorismo che animava le compagnie d’un tempo, ebbero come protagonisti il popolarissimo «Cilién» e il grande Alberto Montacchini, due «pramzàn dal sas» davvero indimenticabili dalla battuta sempre pronta, arguta e fulminante, altissima personalità e bassissima statura per quanto riguarda «Cilién».

Per il fatto che, Icilio Pelizza, in arte «Cilién», era un nano. Con gli inseparabili e fraterni amici Alberto Montacchini ed i fratelli Clerici, «Cilién», fu, con loro, un mito ed una leggenda per il teatro dialettale parmigiano. Famosissimi gli scherzi ai quali partecipò con Montacchini e gli altri compagni di merenda. Fra i più spassosi un episodio accaduto nel corso di un Carnevale, con Montacchini travestito da balia che trasportava in una carrozzina «Cilién» vestito da bebè completamente fasciato proprio come si usava fare una volta con i neonati.

Siccome «Cilién» era pure molto goloso, la «balia», portò il «neonato» alla «Pasticceria Bizzi». Gli amici, ben conoscendo la golosità di «Cilién», ingozzarono il «pupo» con una decina di cannoncini alla crema che, però, contenevano una robusta dose di purga. Il povero «Cilién», dopo poco, sentì i brividi della morte e fu abbandonato in un borghetto a ridosso della Piazza. Titanico fu lo sforzo del povero Icilio dal divincolarsi delle fasce per correre in bagno. Non è detto che sia arrivato in tempo!!

Invece un altro scherzo carnevalesco fu lo stesso «Cilién» che, per scommessa con gli amici, fece ad una signora. Travestito da marinaretto e fingendosi un bimbetto, chiese piagnucolando alla signora se lo avesse aiutato a fare la pipì. Presa da tenerezza la signora acconsentì. Il resto è top secret. Tutte le sensazioni ed i profumi legati al Carnevale parmigiano li ricamò in una deliziosa poesia Luigi («Gigén») Vicini. Versi genuini che emanano il profumo «dìll ciac’ri äd 'na volta» ed hanno il sapore della gioventù.

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