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C'era una volta

Lavandaie e bustaie: quelle donne al lavoro

Lavandaie e bustaie: quelle donne al lavoro

07 Marzo 2022, 03:01

Esce dalla macelleria equina «äd bórgh dal Gèss» con il pacchetto in mano «äd cavàl pìsst» appena macinato da Marcello e Gianni, da anni, i suoi «cavalär» di fiducia. E’ una donna anziana , una «pramzàna dal sas s'cètta cme al lambrussch bón». Transitano nel borgo alcune ragazze giovanissime in jeans e magliette attillate e variopinte. E, fin qui, nulla di strano. Strani, per la nostra vegliarda, sono i jeans che indossano le giovani che presentano vistosi strappi un po' dappertutto. «Mo as' pól portär dill bräghi strasädi? E pensär ch' j'a véndon acsì e po' j' én cäri. Mi son sémpor städa povrètta, són städa äd ca' par d'j' ani in bórgh Vala. Al mè póvor marì al fäva al muradór mo, anca cuand l’andäva a lavorär, l’ò sémpor mandè via con il bräghi véci mo pulidi e sénsa buz. A sèmma miss mäl». Ma chi provvedeva una volta, quando gli strappi non andavano di moda, a rattoppare gli abiti ? La rammendatrice in parmigiano «mindadóra») era una donna abile nel cucito ma, soprattutto, molto paziente alla quale venivano portati capi di vestiario che, per i più svariati motivi, si strappavano. Solitamente anziana, la donna lavorava di fino con ago e filo al punto di restaurare perfettamente quel dannato «sette» in un pantalone o nel gomito di una giacca, magari, di un abito nuovo. Ed era un vero guaio in quanto, una volta, il vestito nuovo rappresentava un lusso, infatti veniva «spianato» per Natale, Pasqua ed in occasione di matrimoni e funerali.

Le case, un tempo, non è che fossero spaziose e quindi, la rammendatrice, lavorava nella grossa cucina alternando i suoi intrecci di filo alla cura delle pentole che borbottavano sulla stufa o sul camino. Perciò non era raro, quando si andava a ritirare l’abito perfettamente rammendato, che lo stesso «profumasse» intensamente «äd vécja» o «stracòt». Un lavoro paziente, quello della rammendatrice, ma anche lungo e pesante che impegnava la donna non solo di giorno, ma fino a notte inoltrata. Ed era proprio di notte che quelle due manine svelte ed esperte lavoravano meglio alla luce di una fioca lampada in quanto non distolte da altre occupazioni pesanti come il cucinare, il lavare, il riassettare la casa. Accanto alla finestra mentre riparava gli strappi, la rammendatrice, era a diretto contatto con il suo mondo. Un mondo piccolo fatto, a volte, di un fettina di cielo, di tante tegole, comignoli e abbaini se abitava ai piani alti, oppure di un tappetino d’orto se la casa era a piano terra. E, da quella postazione, la donna, mentre lavorava, scrutava il tempo e l’avvicendarsi delle stagioni. D’inverno annotava, per prima, il magico tramutarsi dell’acqua in neve e il fiabesco calare della nebbia. Invece, in estate, cercava di sfruttare l’ultimo raggio di sole che illuminava il suo lavoro mentre non era raro che, da quella finestrella aperta sul mondo, scorgesse l’avvicinarsi di un temporale quando il cielo si oscurava e il «Buz ädla Jacma» non prometteva nulla di buono.

Anche quello della bustaia (in parmigiano «bustära») fu un mestiere tutto al femminile che occupò tantissime giovani donne residenti, per lo più, «dedlà da l’acua» e costrette a lavorare in ambienti malsani sopportando massacranti turni tant’è che, nel 1907, queste «guerriere parmigiane» indissero uno sciopero che durò tantissimi giorni per poter far valere i loro diritti. Le due principali fabbriche di busti attive nella nostra città erano quelle di Italo Moraschi e di Giuseppe Mantovani, nato a Parma nel 1839 e morto nel 1942, il quale fondò e sviluppò una fabbrica situata in via Trento che occupò oltre 300 operaie. I suoi prodotti vennero esportati in Europa e nelle Americhe con un successo commerciale che si esaurì irrimediabilmente con l’abbandono di questo prodotto per il nascere di nuove mode. Tra i lavori al femminile di ieri non possiamo dimenticare le modiste (in parmigiano «modìssti») che, seguendo la moda del tempo, creavano cappellini per signora di tutte le fogge e dimensioni, con veletta o meno, a seconda delle varie richieste.

Il fulcro dei laboratori delle modiste era strada Cavour e dintorni dove, agli inizi del Novecento, erano attive diversi laboratori tra i quali quello della Modisteria Paini di piazzale Cesare Battisti dove, fino agli inizi degli anni sessanta, venivano creati eleganti modelli molto apprezzati dalle «signore bene» di Parma. Anche il ricamo, un tempo, era molto in voga. Operavano, nella nostra città, fior di ricamatrici (in parmigiano «ricamadóri»). Ma, se una mamma, voleva preparare un corredo di pregio alla figlia, allora, doveva ricorrere a qualche monastero di monache dove mani abili e delicate, nella pax monastica, tra silenzi e preghiere, ricamavano federe, lenzuola, tovaglie utilizzando raffinate trame. E come non ricordare l’epopea delle lavandaie (in parmigiano «lavandéri» )? Un tempo il bucato, in campagna, lo si faceva un paio di volte all’anno, in primavera ed in autunno: esattamente per Pasqua (in concomitanza con le pulizie della casa) e nel giorno di San Martino, 11 novembre. Ovviamente, le lavatrici non esistevano ed, allora, tutto il lavoro di lavatura e sciacquatura dei panni era fatto rigorosamente a mano. Per quanto concerne i detersivi, dei quali oggi non c’è che l’imbarazzo della scelta a seconda dei vari capi da lavare (lana, seta, cotone), era diffuso un solo tipo e cioè… la cenere di legno duro, setacciata e conservata in vecchie latte o in secchi di recupero. La cenere mischiata con l’acqua formava una densa mistura che veniva versata sui panni immersi nel mastello mentre, in caso di macchie particolarmente dure ad andar via, si utilizzava il sapone fatto in casa con soda caustica e grasso irrancidito. Un rimedio assai poco prosaico, ma che le vecchie «rezdóre» giudicavano eccezionale per sbiancare e candeggiare la biancheria, era l’inserimento nella mistura di urina e sterco di maiale misti ad acqua. Per ottenere un buon bucato si doveva seguire una vera e propria liturgia. Infatti, sopra un robusto supporto di legno a quattro piedi detta «crozéra», si appoggiava un grosso mastello con la biancheria da lavare che era stata in ammollo per un’intera notte opportunamente insaponata.

Alla mattina il mastello veniva coperto con una robusta pezza di tela grezza che fungeva da filtro e, dentro la quale, si versava il ranno bollente prelevato dalla caldaia con una casseruola munita di un lungo manico di legno che permetteva di tenersi a debita distanza dal fuoco. Dopo di che si procedeva al primo lavaggio che coincideva con la fase più importante e faticosa, sia per le «rezdóre» che lavavano nell’aia che per «il lavandéri» che lavavano nei canali. Sopra un’ asse le donne fregavano, sbattevano e torcevano i panni e, per meglio eliminare lo sporco più incancrenito, strigliavano la biancheria con una spazzola a setole dure.

Quindi, la biancheria, veniva risciacquata con acqua corrente del canale o del fosso. Infine il bucato veniva steso ad asciugare al sole e fissato con mollette di legno ad una fune distesa tra due pali di legno o tra due piante sorretta da bastoni a forcella chiamati «ciaparén», oppure lo si adagiava sopra siepi di rosmarino o di lavanda affinchè potesse aromatizzarsi di buoni profumi. La tradizione voleva che le vecchie «rezdóre» non stendessero mai e poi mai nei pressi di un noce per il fatto che la pianta in oggetto era considerata malefica e quindi avrebbe potuto stregare la biancheria che, al contrario, veniva stesa nella notte solstiziale di San Giovanni (23 giugno) poiché la «rozäda äd San Zvan» l’ avrebbe imbibita di benefici influssi. Le lavandaie parmigiane, oltre che nella zona di San Lazzaro ( attuale via San Bruno), erano dislocate laddove scorrevano quei canali cittadini che «il lavandéri», ottime esperte idriche, reputavano con le acque migliori. Ad esempio, gruppi di lavandaie operavano nel canale ubicato nei pressi di Barriera Bixio, altre nei canali della «Bevradóra», via Volturno e Vicofertile e, fino agli anni cinquanta, altre lavandaie lavavano i panni anche nel canale nei pressi della Cittadella.

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