C'era una volta
Per «San Giuzép», il 19 marzo, i «pramzàn i gnävon fóra in späda». Ai giovani ed ai giovanissimi risulterà strana questa espressione ma, per i nostri nonni, «gnir fóra in späda», significava dare il benvenuto alla primavera riponendo in naftalina capotti e tabarri per «spianare» l'abito nuovo in occasione della tradizionale fiera parmigiana che si festeggia il 19 marzo proprio due giorni prima dell’inizio della primavera. Uscire «in spada» è un'espressione antichissima: infatti, fa riferimento a quei signorotti che, secoli fa, quando arrivavano i primi tepori primaverili, attaccavano il mantello al chiodo ed uscivano in «bella vita» facendo sfoggio dello spadino che tenevano appeso alla cintura dei pantaloni. La «Féra äd San Giuzép» era pure diventata un rito per «andär par vjóli al dopmezdì con la moróza», oppure per fare una bella scorpacciata «äd bosilàn», la classica ciambella primaverile che le «rezdóre» preparavano utilizzando le uova fresche del pollaio, in primavera ancor più buone. Significava fare un tuffo nel divertimento semplice e molto spartano dei «baracón», salire su una giostra, lanciare palle di stoffa contro un bersaglio, gustarsi un bastoncino di zucchero filato, addentare un croccante o una frittella dolce che vendevano gli ambulanti che ravvivano la fiera con il profumo fiabesco dei loro dolciumi. Ed, a proposito di frittelle di San Giuseppe, è doveroso ricordare quelle di riso, al delicato sapore di scorza di limone, che faceva la Rosa, un’anziana ambulante proveniente dal pontremolese la quale, nel suo baracchino che posizionava in piazzale Bertozzi, teneva anche una cassetta di libri usati, prevalentemente di filosofi illuministi francesi, tra i quali l’immancabile Voltaire.
La Fiera di San Giuseppe era «la féra di pramzàn» ma, soprattutto, «la féra dedlà da l’acua», un abbraccio alla primavera parmigiana che tappezzava di viole i prati del Giardino Pubblico, della Cittadella e dei fossi del primo contado. E, con la «Féra äd San Giuzép», arrivavano anche i «baracón» che, un tempo, si insediavano rigorosamente in oltretorrente in quanto la «Féra» nacque proprio «dedlà da l'acua», per la precisione in borgo San Giuseppe, all’ombra del campanile dell’omonima chiesa, per poi espandersi nei borghi limitrofi e, ovviamente, in Parco Ducale. Fra le varie attrazioni dei «baracconi» una, in modo particolare, affascinava i giovanotti dell’epoca. Una complicata struttura veniva installata in via Costituente e rappresentava la singolare pista di un gruppo di acrobati che effettuavano il «giro della morte» su apposite motociclette all’interno di una sfera infernale. Un numero davvero mozzafiato che faceva stare tutti, uomini e donne, giovani e anziani, con un palmo di naso nell’osservare quei «matti» che, a cavallo di roboanti motociclette, roteavano intorno come palline. Campione di questa specialità circense era una famiglia parmigiana: i Boni.
Il capostipite fu Giuseppe, «pramzàn dal sas äd bórgh Bartàn», nato nella stessa casa dal grande poeta dialettale «Gigén» Vicini, il quale, con il figlio Vittorio, attuale gestore del trenino del Parco Ducale, fu uno dei più noti virtuosi del «Globo della Morte». Giuseppe Boni, «Pippo» per gli amici, dopo la guerra che lo vide marinaio sull’incrociatore «Cadorna», nel 1946, conobbe tale Musso, piemontese, titolare del «Globo della Morte», venne assunto e, in seguito, diventò socio. Nacque, così, la «Troupe Boni’s» composta da Giovanni Musso e Ginetto Variotto esperto nei vari trucchi del globo che insegnò a Boni. Nell’estate del 1958 Vittorio Boni si aggregò alla compagnia, si appassionò di questa spericolata arte del brivido, abbandonò gli studi e diventò acrobata delle moto a tutti gli effetti.
I «Boni’s» si esibirono in tutta Italia effettuando tournée anche all’ estero. L’ultimo «Globo della morte», nella nostra città, fu installato in occasione della «Fiera di San Giuseppe» del 1964. Tutta Parma saliva in giostra, sugli autoscontri, sulla ruota panoramica che, negli anni settanta, fu installata nell’area «ex Gondrand» (via Farnese) offrendo la possibilità a tanta gente di dominare Parma dall’alto in una sorta di onirico sogno felliniano. E poi i vari ambulanti che vendevano i palloncini per i bambini, le lozioni portentose per i calvi e per i calli, le zingare dalle sottanone larghe e immancabile nidiata di prole attorno che leggevano la mano e distribuivano il pianetino della fortuna con i numeri magici da giocare al lotto. Ed ancora: i mendicanti che stendevano la mano al mesto suono del loro pianino a manovella, militari in libera uscita con tanto di bustina in testa e morosa di fianco, impeccabili carabinieri che pattugliavano la zona vegliandola dal solito ladruncolo che si mescolava tra la folla e poi i venditori di canarini e cocorite che contendevano ai bambini la gazzarra, lo stand dei pesci rossi poiché non si poteva lasciare i «baracconi» senza portare a casa una bustina di plastica ricolma d’acqua nella quale si dimenava a fatica un pesciolino rosso o giallo.
I divertimenti erano poi suddivisi per età e condizioni diverse. Ai bambini erano dedicate le care e vecchie giostre, mentre i giovanotti preferivano l’autoscontro a bordo del quale potevano fare i «fenomeni» con quelle ragazzine che avevano adocchiato in precedenza, mentre per i più temerari era riservato il «calcinculo» che attirava sia ragazzi che ragazze. Si trattava di una giostra spericolata che consentiva a coloro che stavano a terra, in attesa del loro turno, di scrutare con interesse le sottane delle ragazze che la velocità della giostra provvedeva ad alzare offrendo un panorama davvero piacevole per i baldi giovanotti. Un altro divertimento tipico dei baracconi di ieri era il «tirassegno», le famose «tre palle per un soldo» che attiravano tanti giovanotti ammaliati dal sorriso compiacente di avvenenti bionde o lungo crinute more, autentiche sirene di questi stand. Altro segnale importante che l’inverno lo si era lasciato dietro alle spalle era il rinnovato look dei trabiccoli a pedali dei fratelli Cero. Infatti, deposti nel loro magazzino di Strada Nuova, i pentoloni che contenevano i ceci caldi, facevano la loro comparsa i porta-coni ed i contenitori per i gelati. Della cara vecchia «Féra äd San Giuzép» cosa è rimasto ? Solo un «immagonato» ricordo. La cara - vecchia «Féra äd San Giuzép» quando la gente usciva «in spada», ormai, fa parte del capitolo romantico della storia della nostra città avvolta dalla polvere del tempo. Ma Renzo Pezzani, grande cantore della parmigianità con Luigi Vicini, tutto ciò lo aveva preconizzato con questi versi struggenti e realistici: «Pòvra féra’d San Giuzép/ primavéra di mè véc'/ at' si morta adäzi adäzi/ sénsa zbraj e sénsa scuäsi».
Lorenzo Sartorio
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