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C'era una volta

Fede e salute, quei monaci farmacisti

Fede e salute, quei monaci farmacisti

di Lorenzo Sartorio

21 Marzo 2022, 03:01

Nei monasteri e nei conventi, oltre le preghiere, le meditazioni e le varie liturgie, ogni giorno, si alternava il lavoro che spettava a monaci, frati e suore. Lavori sia umili che importanti che consentivano alla comunità di provvedere al minuto mantenimento della chiesa e del convento o del monastero ma anche della cucina, dell’orto, del pollaio e della stalla. In molti casi anche della farmacia, della biblioteca, della spezieria e della cantina. Maestri di spiritualità, liturgia ma anche di lavoro, seguendo il motto di San Benedetto «ora et labora», i benedettini, anche nella nostra città, sono stati lavoratori instancabili, specie nella loro stupenda farmacia ma anche nelle loro cucine.

Ricettari, talismani, antichi manoscritti riguardanti, appunto, medicamenti, infusi, unguenti, essenze, pomate, pasticche, elisir sono custoditi in antichissimi e preziosi ricettari, un autentico tesoro che, grazie alla disponibilità di padre Filippo, siamo riusciti a consultare. A questo proposito, nell’ottobre del 2007, l’Accademia Italiana della Cucina delegazione di Parma, realizzò un interessantissimo il libro di Anonimo del Settecento: «Raccolta di diversi potachi, zuppe, intingoli e paste. La cucina dei benedettini a Parma» a cura di Lorena Carra con presentazione dell’allora delegato dell’A.i.c. di Parma, l’indimenticato Giorgio Orlandini, e con prefazione di Giancarlo Gonizzi (Mup editore).

«Il quaderno - rileva Lorena Carra - rispecchia, non soltanto la gestione della Casa, ma anche il grado di specializzazione professionale del cuoco a cui è destinato e dei compiti e lui affidati. In questo caso, in un’unica persona, sono riassunte le funzioni di cuoco, confetturiere, credenziere e farmacista. Ogni festività - prosegue l’autrice - richiedeva minuziosi preparativi, sia per la parte che si svolgeva in chiesa, sia per quella attinente il refettorio. Tutto era una questione di fede e di rispetto per la Regola di San Benedetto, tutto era rivestito di un significato che trascendeva il semplice aspetto nutritivo e materiale come si conviene ad un luogo di spirito qual è il monastero. La semplice indicazione ''di grasso'' o ''di magro'', dunque, poteva essere di fondamentale importanza per sapere quale pietanza portare in tavola». Una tavola, fra l’altro, molto affollata se si pensa che la comunità benedettina, nel 1792, era composta da 68 monaci e 28 inservienti secolari. Tante bocche, dunque, da sfamare nei giorni feriali ma anche nei dì di festa dove la cucina lavorava notte e giorno come, ad esempio, in occasione del Natale al cui pranzo erano previsti: «frittura di vitello o di porco, annolini oppure maccheroni grossi, libre una di vitello oppure un quarto di cappone se ve ne sarà, formaggio di Cadè ed un pezzo di spongata».

Ed a proposito della spongata dei monaci, meglio conosciuta come «spongatini dell’aquila», lo studioso di tradizioni popolari Enrico Dall’Olio, ci svela un segreto-pettegolezzo nei suoi volumi-capolavoro «Tradizioni Parmigiane» ( «Grafiche Step» editrice). L’autore cita, a tal proposito, un documento datato 1589, il quale attesta che presso il Monastero di San Giovanni, nel tempo di Avvento, si producevano spongate. Il documento tratto da : «Scenes form Italian life» London 1859, traduzione di F. Razzetti (Gazzetta di Parma del 31 gennaio 1977) riporta il seguente testo: «…. questi bravi frati usavano mettersi al lavoro per tutto l’Avvento e così intensamente da non avere tempo per preparare il Santo Presepe. Chiamavano vecchi amici, protettori, benefattori del convento che amano riunirsi nelle lunghe ore invernali nelle botteghe dei barbieri e dei farmacisti a dare una mano nella manipolazione dei preziosi ingredienti. Notte dopo notte questi benemeriti impastavano, pesavano, pestavano mandorle e noci moscate raccontandosi piccanti barzellette. Il mondo esterno vedeva bruciare allegramente la loro operosa lampada e se ne compiaceva: poi quando veniva giorno, gli spongatini dell’aquila, così chiamati dall’Aquila simbolo dell’Evangelista, che avevano sulla crosta più nutrimento di una torta nuziale, venivano mandati dappertutto ordinatamente avvolti in seta ed argento per la delizia dei ragazzi e con completo disappunto e scorno dei pasticceri secolari costretti a riconoscersi dei semplici guasta mestieri nei confronti dei reverendi artigiani».

E, se i benedettini preparavano gli «spongatini dell’aquila», le monache, oltre ai lavori di cucito e ricamo, erano le facitrici delle ostie e del vino da messa. Ogni sacerdote, ogni parroco, ogni convento aveva il suo e lo teneva ben custodito come un oggetto prezioso. In cantina, in una damigiana posta al riparo dalla luce e in luogo protetto, in modo tale che potesse essere al sicuro da ficcanaso o da improvvidi cantinieri, il «vino da messa», era ed è uno dei simboli più sacri e significativi dell’Eucaristia, rappresenta il Sangue di Cristo e, quindi, non solo deve essere di primissima qualità, ma deve essere soprattutto naturale.

L’essenza della «Violetta di Parma» (famosa in tutto il mondo) la si deve alla duchessa Maria Luigia d’Austria. Infatti, fu proprio l’illuminata sovrana ad incoraggiare i frati dell’Annunziata di condurre ricerche nelle loro «oficine» conventuali. Ed i bravi francescani, dopo un lungo e paziente lavoro, riuscirono ad ottenere dal fiore e dalle sue foglie un magico profumo che in seguito la Borsari portò nel mondo. Infatti, fu proprio dai frati dell’Annunziata che, nel 1870, Ludovico Borsari riuscì ad avere la preziosissima formula segreta per la preparazione di quel profumo che, per molti anni, fu simbolo di eleganza, charme e voluttà di tante affascinanti signore. E, se il farmacista rappresentava il top della farmacologia laica, monaci e frati erano i gran amanuensi di quella religiosa. Infatti, se i benedettini erano detentori di fornitissime farmacie monastiche, i francescani erano abilissimi nel preparare la famosa «acqua vulneraria» usata per cicatrizzare le ferite d’arma da fuoco, mentre i carmelitani scalzi erano imbattibili nel produrre «acqua di melissa» particolarmente efficace contro il mal di pancia dei bambini.

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