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Testimonianza

In fuga dall'Ucraina: «Grazie Parma per il tuo cuore»

In fuga dall'Ucraina: «Grazie Parma per il tuo cuore»

di Roberto Longoni

28 Marzo 2022, 03:01

Regali così, il piccolo Alexey non ne aveva mai visti. Fa niente che al centro del tavolo mancasse la canonica torta con le dieci candeline da spegnere. Spacchettare Lego, libri e macchinine pronte a prendere vita da sole accendendosi tutte, ha fatto passare in secondo piano la dimenticanza. Tanto da far esclamare al festeggiato che quel compleanno fosse il giorno più bello e felice della sua vita. Facile credergli, al confronto con i giorni appena precedenti, dal 24 febbraio in poi. E peccato solo che per viverlo sia stato necessario percorrere quasi duemila chilometri e lasciare la parte maschile della famiglia - papà, nonno e zio - nelle campagne vicino a Ternopil, chi con un kalashnikov in braccio, chi con compiti di vigilanza e supporto agli ucraini in armi. D’accordo, la zona è ben più tranquilla di Mariupol, Karkhiv e Odessa, ma non è detto che i carri armati russi non ci arrivino mai. E ancora meno ci si può sentire al sicuro dagli agguati riservati dal cielo. Aerei, missili, bombe. «L’allarme ha suonato tante volte in questi giorni» racconta Nadiia Lytvyn, zia di Alexey. Che non segua nessuna esplosione, come è stato finora, sarà sì un sollievo, ma il suono della sirena ti strappa comunque via ogni volta anni di vita. Così, Nadiia 45 anni e la mamma Miroslawa, 65, la sorella Alexandra, 40, e la figlia 21enne Natalia, sono salite su un pullman diretto a Parma, dove sono arrivate la sera seguente. Con loro, Alexey e Sofia (2 anni), figli di Alexandra e Zlata, 4 mesi, figlia di Natalia. Miroslawa usciva per la prima volta dall’Ucraina. L’ha fatto varcando tre frontiere in un viaggio: con Ungheria, Slovenia e infine Italia. L’ha fatto con un biglietto di sola andata, senza sapere quando e se rivedrà la casa e chi c'è rimasto.

Il rombo degli aerei

Fu proprio dal cielo che venne la terribile sveglia il 24 febbraio, prima dell’alba. «Sentimmo il rombo dei caccia e il sibilo dei missili sulle nostre teste - racconta Nadiia -. Non ci potevamo credere. Nonostante tutto, fino all’ultimo momento nessuno riusciva a immaginare che la Federazione russa avrebbe scatenato la guerra». La televisione non fece che confermare quanto già si sapeva. I giorni seguenti avrebbero smentito anche l’illusione che dalla follia si rinsavisse in fretta. Le sirene suonarono sempre più spesso, sempre più frequenti furono le corse in cantina, l’unico fragile rifugio della casa in campagna, a volte in piena notte. Intanto, Alexey perdeva la scuola. Così, un paio di settimane dopo, la famiglia di Nadiia decise di partire. La meta fu lei a proporla, dopo avere lavorato a Parma saltuariamente, badante per qualche mese, in sostituzione di connazionali amiche. È nella nostra città che, da autodidatta e con molta buona volontà, ha imparato a comprendere l’italiano e a farsi capire.

Attraverso le frontiere

Il 16 marzo, la partenza sul pullman prenotato una settimana prima. Una valigia a testa, un passeggino per la bimba più piccola, gli ultimi abbracci che si trasformano in nodi alla gola. Dopo una sosta a Leopoli, verso il confine con la Polonia, il pullman ha puntato verso sudovest, prendendo una strada più tortuosa e protetta, fino alla frontiera con l’Ungheria. «Qui abbiamo sostato quattro o cinque ore in coda, alla dogana, ricevendo i primi aiuti, con qualcosa di caldo da mangiare e da bere. Alle 4 del mattino eravamo finalmente in Ungheria». La lunga attesa era legata alla presenza dei tre bambini: era necessario fornire un documento valido per l’espatrio a ognuno di loro. Da lì in poi, il viaggio è proseguito senza intoppi, con soste a Venezia, a Ferrara e in tutte le città scelte come meta dai rifugiati. «Noi siamo scesi per ultimi, a Parma, alle 22». Ad attendere il gruppetto, i volontari della Croce gialla, con una zuppiera di anolini in brodo e i biberon per le più piccole della comitiva. «Sono stati molto bravi: ci hanno subito fatto sentire a casa» sottolinea Nadiia. Il fumante benvenuto della festa, accompagnato da fette di prosciutto crudo. Solo lei aveva assaggiato prima in vita sua gli anolini.

Dopo la doccia, poi, finalmente un sonno ristoratore nel dormitorio di prima accoglienza allestito dal Seirs in una sala della propria sede, nell’ex centro stampa della Gazzetta. Il giorno dopo, i regali portati da Alex («Il nostro angelo custode» sottolineano le rifugiate) ad Alexey non sono stati le sole sorprese. Una, meno gradita, ha riguardato una delle quattro adulte risultata positiva al Covid. Subito per l'intero gruppo è scattata la quarantena, della quale si intravvede ormai la fine. Mentre della tragedia dalla quale si è fuggiti no. I giorni di quarantena sono trascorsi in attesa di notizie da casa, dove il marito di Nadiia, invalido, ha voluto comunque restare. Così come il padre di lei, 70enne, che avrebbe avuto l'età di andarsene. «Ci sentiamo tutti i giorni. Finora attacchi non ne hanno subito, ma fino all'altro ieri anche Leopoli non era mai stata bombardata». Ora, finita la quarantena, si dovrà trovare il modo di far studiare Alexey. «E noi di lavorare. Non siamo gente che si tira indietro. Intanto, però, ci teniamo a ringraziare tutte le persone vicine. La nostra gratitudine va agli italiani, agli europei, agli americani, a Papa Francesco. E un grazie particolare ad Alex, Katia, Aurora e Walter per aver preso le nostre storie nei loro cuore».

Roberto Longoni

© Riproduzione riservata

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