l'intervista
E' uno dei protagonisti della scoperta dei neuroni specchio che, nel 2007, gli permise di ottenere assieme a Giacomo Rizzolatti e Leonardo Fogassi il Grawemeyer Award for Psychology, ma i riconoscimenti internazionali per il neuroscienziato parmigiano Vittorio Gallese, docente di Psicobiologia del nostro ateneo, sono davvero tanti a suggello di una carriera caratterizzata da numerosi e importanti successi scientifici.
Ora, per lui, è arrivata anche la nomina a membro onorario dell'American College of Psychiatrists di cui fanno parte solo 750 degli oltre 46 mila psichiatri americani. Una carica assegnata «a studiosi che abbiano dato significativi contributi scientifici e clinici nel campo della psichiatria». Vittorio Gallese, si legge nella motivazione, è «un proficuo ricercatore interdisciplinare. I suoi vari incarichi, così come le collaborazioni, riflettono ampi interessi di ricerca che vanno dalle neuroscienze cognitive all'estetica sperimentale, alla neuropsicologia, alla psicopatologia e alla filosofia della mente».
Professore che cosa significa per lei questa ulteriore importante onorificenza?
«Come ogni riconoscimento pubblico è sempre una grande soddisfazione personale perché dimostra che si sta operando nella direzione giusta. Quest'ultimo però assume un significato particolare per un fatto personale. Alla fine del liceo, io ho fatto il Romagnosi, ero indeciso fra filosofia e medicina ma alla fine scelsi, con convinzione, medicina perché volevo fare lo psichiatra. Sapevo che non avrei mai fatto il chirurgo o il dermatologo. E poi, tramite un mio compagno di liceo, conobbi il professor Giovanni Pavesi, un ottimo neurologo recentemente andato in pensione, che lavorava nel laboratorio di Giacomo Rizzolatti. Un giorno Pavesi mi disse; “Vuoi fare lo psichiatra? Allora perché non vieni in laboratorio? Io pensai: tutto sommato un paio di anni lì mi potrebbero fare comodo per imparare tante cose sul cervello. Accettai e non sono più andato via...»
«La psichiatria è comunque rimasta sempre sotto traccia nella mia ricerca fino a riemergere prepotentemente con la scoperta dei neuroni specchio, la “sterzata” decisa dei miei studi verso la tematica delle relazioni personali, dell'empatia, di come facciamo a capirci. Un'ottima base, da un punto di vista tutto nuovo, per affrontare temi psicopatologici».
Perché questa sua grande attenzione verso la psichiatria?
«Il problema delle malattie psichiatriche è una questione estremamente importante perché non solo rendono molto difficile la vita delle persone che ne soffrono, ma anche quella di tutte le persone che vivono accanto al malato. La medicina ha fatto grandi progressi, ha scoperto farmaci che hanno consentito di curare molte di queste patologie, ma io ho sempre percepito che mancasse qualcosa. Nell'approccio neuroscientifico c'è un salto troppo grande tra la dimensione personale della malattia e il ridurla esclusivamente a carenze o eccessi di qualche neurotrasmettitore. Si deve invece connettere i sintomi (cioè che cosa vuol dire, ad esempio, essere depresso, psicotico o anoressico) con i meccanismi che sregolano e determinano queste condizioni».
«Ho iniziato così a collaborare con degli psichiatri proprio per approfondire questi temi. I primi studi li ho condotti qui a Parma con il gruppo del professor Maggini e sto proseguendo con il professor Marchesi ed i suoi collaboratori, ma ho aperto un canale di collaborazione anche con l'Università di Chieti. Ho conosciuto persone che mi hanno aiutato a crescere. L'ultimo riconoscimento ricevuto credo premi questo cammino che ho avuto la fortuna di intraprendere».
Al centro della sua ricerca c'è sempre stato un approccio multidisciplinare, a metà fra scienziato ed umanista, verrebbe da dire come avveniva nel Rinascimento...
«Il fatto che un neuroscienziato si interessi di psichiatria, di musica, di letteratura, di arte, cinema ed estetica non è un di più, non è un vezzo. Non è voler mettere una ciliegina culturale sulla torta della scienza. E' un'esigenza professionale necessaria perché capire la mente umana significa voler capire chi siamo, capire cosa ci rende umani: sostanzialmente il linguaggio e le creazioni simbolico-artistiche. E siccome l'arte e la cultura ci caratterizzano non possiamo lasciarle fuori dal laboratorio. La nostra sarebbe un'indagine monca».
«Io rivendico quindi non solo la possibilità di allargare il campo della ricerca neuroscientifica a queste tematiche, ma credo sia necessario farlo. Siamo, è vero, ancora in pochi, ma io non mollo, sono abituato a fare le nozze con i fichi secchi e non mi fermo».
Pochi fondi anche per le sue ricerche in Africa.
«Da dieci anni andiamo in Sierra Leone per studiare gli effetti degli abusi, delle violenze fisiche e sessuali sugli adolescenti con un approccio che non è concentrato solo sul cervello, ma è più globale. Ci siamo andati per primi, quando addirittura per far funzionare un computer dovevamo attaccarlo ad un generatore a gasolio. Grazie a questa esperienza e agli studi che abbiamo portato avanti, io oggi non parlo più di cervello ma di cervello-corpo: perché il cervello è pienamente integrato nel corpo».
«Gli ultimi studi, ad esempio, stanno affrontando il tema dell'interazione cervello-cuore. Grazie all'uso dell'elettrocardiogramma stiamo studiando il ruolo del sistema nervoso autonomo, quello che fa battere più forte o più lento il cuore, che poi è un elemento determinante di quello che noi definiamo emozione o comportamento affettivo».
E su questi temi, temo, si dovrà lavorare a fondo per capire cosa ci hanno lasciato oltre due anni di pandemia.
«Non c'è dubbio. Dovremo investire tanto perché il disagio psichico è evidente. Basta andare in giro per strada, guidare un'auto nel traffico per rendersi conto di quante persone ormai vivono, come dire, “al limite”. Noi siamo in una città dove queste problematiche sono state da sempre al centro dell'attenzione, penso al lavoro di Mario Tommasini. Ora questa tradizione va sicuramente rialimentata».
«Recentemente poi sono stato a Napoli dove ho firmato con convinzione il manifesto per la salute mentale, un documento dove si ribadisce che in Italia si dovrebbe fare di più in questi ambiti, vista anche le pesantissime ricadute economiche. Investire sulla salute mentale significa investire nel paese. Ma ancora c'è poca sensibilità su questo tema».
Spesso ci si limita al farmaco?
«La “pillolina” è sempre importante e sarebbe bene scoprire nuovi farmaci. Ma per avere medicinali ancora più efficaci servono nuove ricerche. Ai miei studenti dico sempre che più che parlare di malattia mentale, anche se è necessaria una classificazione per capire di cosa stiamo parlando, si dovrebbe parlare di malati di mente. Ogni paziente è diverso dall'altro e servirebbe tanto tempo per studiare ogni caso. Spesso però, vista la congestione dei servizi che vede impiegati pochissimi professionisti, una visita non può durare mai più di venti minuti. Non bastano, ma in questo momento non abbiamo alternativa».
In Emilia-Romagna si inseriranno nei prossimi anni 328 psicologi nelle case della salute. Questo potrà servire?
«Certo, significa andare nella direzione giusta. C'è bisogno di tante figure, anche molto diversificate, per rispondere alla domanda crescente. La nostra vita, con i suoi ritmi frenetici, purtroppo ce lo richiede».
In questo periodo di pandemia secondo lei lo scienziato, più in generale il mondo della scienza e della ricerca, ha guadagnato o perso credibilità?
«Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno direi che la pandemia ha messo in evidenza in maniera chiarissima, ammesso che ce ne fosse bisogno, la centralità della scienza. Se vogliamo affrontare problemi complessi, come quelli legati alla salute, abbiamo bisogno di dati certi, di persone che sanno di cosa parlano. Questo spero si sia capito. Va anche detto, però, che da parte di qualcuno c'è stato un eccesso narcisistico, troppa esposizione mediatica, che ha evidenziato aspetti che con la scienza hanno poco a che fare. Più che scienziati si era insomma di fronte a dei personaggi. Questo non ha aiutato».
In più le tante, troppe, fake news sul web e non solo.
«Io ho due figli adolescenti ed io e mia moglie non ci stanchiamo mai di ripetere loro che devono sempre verificare le fonti. Da dove viene una informazione? Che legittimità ha chi parla? La scuola dovrebbe insegnarlo, anche perché internet è una replica digitale del mondo e quindi ospita tutto e il contrario di tutto».
E su di questo ha dovuto fare i conti nella sua attività di ricerca con la sperimentazione animale.
«Quando l'emotività, che è una costante della nostra intelligenza, offusca un'analisi più ponderata della realtà e prende il sopravvento si perde la bussola e si assumono delle posizioni che non hanno più giustificazioni. Si torna all'oscurantismo. C'è quasi paura di conoscere».
Lei invece va avanti scegliendo anche di restare in Italia, dove la ricerca spesso non è aiutata. Perché?
«Perché a Parma c'è Pèpen! E' una battuta ovviamente ma riassume cosa trovo nella mia città e in Italia: la qualità della vita. Io sono poi un “provinciale”. Ho lavorato due anni in Giappone, sono stato a Berkley, ho lavorato a Los Angeles, a Londra, a Berlino e Losanna. Un po' di mondo l'ho visto e le occasioni per trasferirmi all'estero non sono mancate. Ma ho sempre detto “no” perché la qualità della vita che abbiamo in Italia, e in particolare a Parma, è impagabile. Siccome si vive una volta sola preferisco farlo in un luogo dove mi sento bene».
Non possiamo non parlare dei “suoi” neuroni specchio. Avete trovato la chiave scientifica del detto di Aristotele “L'uomo è un animale sociale”?
«Non possiamo mettere tutto sulle povere spalle dei neuroni specchio. Questo “meccanismo”, mi piace definirlo così quello dei neuroni specchio, dimostra come il nostro essere sociale, per dirla con Aristotele, non è semplicemente una proprietà del comportamento ma la troviamo pari pari anche a livello dei meccanismi con cui funzionano alcuni circuiti nel nostro cervello. Questa scoperta ha dato il via a tutto il filone che noi oggi chiamiamo neuroscienze sociali».
Una scoperta fondamentale per la scienza umana ma le critiche non sono mancate. Perché?
«Attorno a questa scoperta si sono spesso attribuite delle proprietà che non sono proprie di questo “meccanismo” e questo ha attirato purtroppo le antipatie, le contrarietà di alcuni colleghi. Ad esempio, un giornale americano pubblicò la notizia di un uomo che si era gettano nei binari della metropolitana per salvare una bambina e scrisse: “Oggi sappiamo perché siamo altruisti perché conosciamo i neuroni specchio”. Una baggianata. Avere i neuroni specchio non significa essere buoni: è più semplicemente una delle modalità più dirette che abbiamo a disposizione per capire gli altri. Poi quello che ci facciamo con questa comprensione è tutta un'altra cosa, i neuroni specchio non contano più nulla. Come dire, difficile che esista il buon samaritano, la persona buona, senza empatia, ma si può comunque essere empatici e poi manipolare l'altro».
Parlava di nozze con i fichi secchi riferendosi ai fondi per la ricerca. Ora spera che possa arrivare qualcosa di più grazie al Pnrr?
«I conti si faranno alla fine se e quando arriveranno davvero questi soldi. La ricerca purtroppo richiede anche aspetti manageriali, a partire dai fondi per pagare attrezzature, borse di studio, assegni di dottorato e quant'altro. C'è un grande investimento, gli stanziamenti previsti sono molti. Speriamo siano spesi, distribuiti, nel modo migliore. Voglio essere ottimista perché spero si sia capito, direi finalmente, che finanziare cultura, educazione, istruzione e ricerca è il miglior investimento che un paese possa fare. L'Italia non avrà i pozzi di petrolio o non avrà il gas, ma una cosa che non è mai mancata è la creatività e l'intelligenza. Lo dice uno che bazzica l'ambiente della ricerca da quaranta anni: i nostri studiosi quando vanno all'estero, e purtroppo ce ne stanno andando sempre di più, fanno sempre delle carriere straordinarie. Se investiamo su questo capitale umano facciamo solo un gran bene al nostro paese».
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