Università
Lo filmarono mentre varcava la soglia di una profumeria, di una banca, di una farmacia, di una concessionaria automobilistica, di una lavanderia automatica o di un supermercato. Ma il più delle volte era in un bar che entrava, quasi sempre il solito: per un caffè che, per quanto breve fosse la pausa, era comunque «scorretto». La tazzina, come il resto degli stop sul tragitto lavoro-lavoro, andava puntualmente di traverso alla legge. Già, perché il tecnico di Fisica sanitaria oggi 54enne si concedeva le distrazioni dai propri compiti durante i servizi per l'Università, senza avere segnalato l'intervallo strisciando il badge. I finanzieri che lo tennero d’occhio per quasi un anno, dal gennaio al dicembre del 2015, calcolarono che in tutto l'uomo aveva speso per sé 39 ore, per le quali era invece stato pagato dall’Ateneo. A questo tempo corrisponderebbe un danno patrimoniale di 506,44 euro. Ore che, tradotte nella lingua del Codice penale, significano i 9 mesi di reclusione e 300 euro di multa della pena inflitta ieri mattina dal giudice Giuseppe Saponiero, dopo che il pm Lino Vicini aveva chiesto un anno e 500 euro.
Più che i mesi (teorici, in quanto sospesi dalla condizionale) o la sanzione pecuniaria all'uomo pesa però la condanna in sé, il verdetto per il quale, nella sbrigativa lingua comune, lui sarebbe un «furbetto del cartellino». Il cliché evoca immagini di dipendenti pubblici che timbrano in mutande, pronti a tornare a letto, quando magari dovrebbero essere in divisa o anche solo in jeans, ma comunque a uno sportello. O che, semplicemente, fanno strisciare il badge personale da colleghi compiacenti. «Nel caso del mio assistito non è proprio così - sottolinea il suo difensore, l'avvocato Federico Silvestrini -. Non si è comportato con astuzia né ha mai arrecato alcun danno all'Università: per questo anni fa, dopo aver risarcito l'Ateneo di quei 506 euro, abbiamo deciso di andare al dibattimento, per spiegare le nostre ragioni. Il mio assistito può essersi preso le pause contestate, ma consapevole delle ore in più lavorate senza chiedere nulla in cambio. Il tesoretto da lui accumulato supera di gran lunga le 39 ore contestate. Il mio cliente, il cui profitto è stato giudicato “ottimo” ogni anno, non si è mai tirato indietro di fronte agli impegni. Anche la notte nella quale si verificò un allagamento in Università: lui accorse subito e si diede da fare, pensando a tutto fuorché a timbrare il cartellino. Magari lo avesse fatto. Non guardando l'orologio, non aveva il badge in cima alla lista dei pensieri». Silvestrini annuncia fin d'ora la volontà di ricorrere in appello, una volta trascorsi i 40 giorni necessari per il deposito della motivazione del verdetto di primo grado.
Il 54enne processato ieri mattina era l'ultimo dei cinque dipendenti universitari indagati per truffa continuata dalla Guardia di finanza nel corso del 2015. Archiviata una prima posizione, dei quattro che rimasero una 53enne tecnica di Fisica sanitaria patteggiò subito un anno. E dodici mesi e 600 euro di multa, nel 2018, patteggiò davanti al Gup un 52enne tecnico dell'Istituto di patologia generale filmato dalle Fiamme gialle mentre, dopo aver strisciato il badge, andava in piscina, in palestra o a fare spesa. Una 46enne dipendente del Dipartimento di Neuroscienze venne invece assolta: dimostrò al Gup di essersi assentata dall'ufficio (a sua volta senza «stimbrare») sempre per recarsi dall'anziana madre, per affrontare emergenze logistiche o sanitarie: un'assenza totale, la sua, di 15 ore, compensate, sembra con gli interessi, dal lavoro fatto in più. L'unica posizione ancora aperta (e destinata a rimanere tale, vista la volontà di ricorrere in appello) era quella del 54enne.
«Paghiamo anche il clima da “caccia alle streghe di quegli anni”: ed è una vera beffa che il mio assistito possa essere associato a chi finge di lavorare - commenta il difensore -. I suoi orari erano molto flessibili, e lui non ne ha mai approfittato. Spesso e volentieri trascorreva in Università la pausa pranzo e prendeva le ferie sulla base delle necessità dell'Ateneo». I verbi sono al passato, perché nel 2016, per effetto del decreto legislativo del 2001 e poi della riforma Brunetta del 2009, il tecnico era stato licenziato: così come gli altri colleghi. Il provvedimento disciplinare è stato da lui impugnato davanti al giudice del lavoro.
«Stiamo parlando di un uomo che in questi anni, molto probabilmente proprio a causa del proprio incarico, si è gravemente ammalato. Era infatti addetto anche al trasporto dei rifiuti radioattivi dell'Università: in tutto, un centinaio di fusti all'anno. Questa dura prova, sembra che il mio assistito l'abbia felicemente superata. Ora però vuole “guarire” anche dall'accusa di essere un “furbetto”. Semmai, lui si sente proprio il contrario».
Roberto Longoni
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