C'era una volta
Pochi sanno che uno dei primi a Parma a esercitare l’industria della conserva di pomidoro fu un oste di borgo San Giuseppe, chiamato «Vigén tutta nòta».
L’osteria di «Vigén»
Aldo Emanuelli nel suo «Osterie Parmigiane» (edit. «La Bodoniana» - 1931) ce lo svela. Innanzitutto è doveroso premettere che l’osteria di «Vigén» era meta di quegli incalliti nottambuli che volevano terminare la notte da qualche parte per poi sublimare il tutto con l’ennesimo brindisi. «Nottambuli - precisa l’Emanuelli- che, numerosi, nelle ore piccine antelucane e in abito da società si spingevano per chiudere la serata, o nel «Caffè della Cordlèn’na», in via San Francesco, dopo terminati i teatri, dopo le cene o laggiù, in Piazzale San Giuseppe per gustare l’ottimo vino di Vigén tuta nota». «Non di rado - prosegue il cronista- anche qualche serica sottana non disdegnava accompagnare l’amico da “Vigén” per gustare una squisita fetta di salame vero Felino e bere un calice del bianco, sottile, profumato vino». Un’osteria, quella di borgo San Giuseppe, che aveva anche giustificate pretese di eleganza e, a tenerla sempre in ordine ed accogliente, provvedeva l’austera e bellissima moglie di «Vigén». A questo punto, Emanuelli, ci svela la sorpresa, ossia un’ importante caratteristica dell’osteria oltretorrentina. «D’estate, i pochi avventori nottambuli si sentivano solleticare il naso dall’acuto profumo non molto gradito di pomidoro bollito. Vigén, infatti, produceva conserva di pomodoro in pani alla guida di un’impresa piccola, meglio casalinga, che gli procurava qualche discreto guadagno. Un'industria che fu l’inizio e l’origine della grande industria dell’estratto di pomodoro che rese celebre la nostra provincia nella quale ora sorgono fabbriche imponenti a cui invano, l’estero, cerca di far loro concorrenza».
Già, la cara vecchia conserva del pomodoro che, con le varie marmellate, sanciva, a fine estate, per le «rezdóre» di ieri il «tempo di fogón». L’antica usanza nostrana per fare la conserva prevedeva momenti sacrali che le «rezdóre» dovevano osservare con la massima cura. Innanzitutto, la materia prima era costituita da pomodori molto maturi. Una volta scottati in acqua bollente in modo da poter togliere facilmente la buccia, i pomodori pelati venivano tagliati a pezzetti e messi nel pentolone per circa 3 ore con aggiunta di solo sale. La parte predominante della bollitura spettava al «fogón» che bisognava mantenere sempre attivo alimentandolo con legna giusta che desse la fiamma adatta. Ma l’abilità della brava «rezdóra» era l’accudire amorevolmente la mistura mescolandola di sovente con un cucchiaione di legno perché non attaccasse nel fondo del paiolo di rame. Alcune massaie aggiungevano alla conserva i «savôr»: sedano, cipolla, carota, aglio, basilico, prezzemolo e una puntina di zucchero per togliere l’acidità del pomodoro.
La «consèrva dura», quella di pomodori in pani, la descrive alla perfezione l’illustre storico Guglielmo Capacchi nel suo meraviglioso libro «La cucina popolare parmigiana» (Artegrafica Silva editore ) che ogni parmigiano dovrebbe avere nella propria biblioteca. «Per quelli di noi ragazzi che avevano, diciamo così, un piede in città e l’altro in campagna, la conserva di pomodoro in pani rappresentava la più squisita delle marmellate così, alla fine di agosto o ai primi di settembre, un oggetto casalingo spartanamente semplice ed umile, «l’àsa da consèrva», era guardato con bramosia nell’attesa che la polpa esposta al sole assumesse una consistenza compatta, soda e la si potesse spalmare sul pane, grassa e odorosa, magari con l’aggiunta di un po’ di zucchero». La conserva dura campagnola è per definizione «còta al sol»: i pomodori si tagliano a metà, nel senso orizzontale e si espongono al calore solare per alcuni giorni sulle assi da conserva inclinate. Queste assi consistono in una o più tavole riunite, bordate tutt’intorno da un listello alto almeno 8-10 centimetri al disopra del piano. Dopo una prima appassitura al sole, i pomidoro vengono passati al «colèn grand», un grosso crivello di lamiera bucherellata o un setaccio a maglie un po’ larghe. Poiché la polpa rimasta è ancora poco consistente, la si rimette ancora dentro le assi da conserva dopo aver aggiunto una giusta quantità di sale ed un grammo di acido salicilico per ogni chilo di polpa. Le assi si riespongono al sole, proteggendole dagli insetti con larghi teli di garza. Quindi, si ha cura di rimestare, di tanto in tanto, con cucchiai di legno finché la conserva non abbia raggiunto una consistenza tale da poterla plasmare in panetti da conservare entro carta velina per uso abbastanza prossimo, oppure in vasi di vetro o di terra che siano chiusi più accuratamente possibile. Ma, se questo era fattibile nelle aie, c’era un sistema più sbrigativo che veniva usato alla fine dell’Ottocento anche in città per una produzione artigianale destinata ad un pubblico in sicuro aumento: al sole, si sostituivano le caldaie.
Il rito della marmellata
Le nostre nonne non mancavano mai, specie in campagna, di essere le protagoniste o, meglio, le sacerdotesse del sacro rito della conserva ma anche della marmellata e, come altrettante vestali, vegliavano incessantemente per una giornata quel «fogón» che ardeva nel cortile o sull’aia traboccante di un amalgama bollente e profumata che poi, dopo un’opportuna lavorazione, veniva travasata nei vasetti e conservata «in t’al granär» o nella dispensa per la stagione fredda. La «marmläda» era una vera manna per la merenda dei bambini, ma anche per quelle torte dei dì di festa che prevedevano, oltre gli altri tradizionali dolci inzuppati, anche le crostate di marmellata irrinunciabili per i giorni di sagra. Il tempo del «fogón» «iniziava - come riporta Enrico Dall’Olio nelle sue «Tradizioni parmigiane» (Grafiche Step editrice) - con un convegno di lavoro, ossia, un appuntamento di amicizia nel cortile o sull’aia. Una volta compiuti i vari riti rispettando le giuste dosi di acqua e di zucchero, gli uomini accendevano il «fogón» con qualche manciata di ramaglia. Troneggiava sul «fogón» acceso un imponente paiolo di rame lucidato di fresco. Partiva, così, la lunga pantomima di cottura che, prolungandosi per ore ed ore, riduceva di molto il contenuto. «L’occhio della rezdóra- annota Dall’Olio- doveva quindi seguire il fuoco perché non venisse meno mentre, contemporaneamente, le sue mani erano impegnate a mescolare il tutto con una lunga spatola di legno onde evitare le facili bruciature sul fondo». Lentamente, l’incandescente e profumata lava si rassodava, acquistando colore intenso. Per il sapore, se era gradevole o meno, le donne, con un’abilità diabolica, eseguivano un veloce assaggio passando il dito sulla spatola bollente. La «marmläda äd brùggni suchéli» iniziava, così, a prendere forma e sapore.
Lorenzo Sartorio
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