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Reportage

Ucraina, la pace in 340 culle

Ucraina, la pace in 340 culle

di Roberto Longoni

23 Luglio 2022, 03:01

Zahony (frontiera Ungheria-Ucraina) Facile dimenticare le guerre altrui, un po’ meno farlo con la propria. Eppure c’è chi ci riesce. Che magari senza lasciarsi del tutto alle spalle missili, fosse comuni e violenze individuali su larga scala, arriva ad anteporle altro. I genitori da riabbracciare, la casa da controllare (se è ancora in piedi), il marito diviso tra il kalashnikov della Difesa territoriale e la falciatrice della vita di sempre: ora nei campi servono tutte le braccia (se il raccolto non è bruciato). O è anche la semplice nostalgia a farsi rimangiare le corse dettate dall’istinto di sopravvivenza. «Da settimane il flusso di chi rientra in Ucraina supera quello dei nuovi arrivi». Laszlo Helmeori lo sa bene. Sindaco di frontiera in tutti i sensi, spesso Laszlo si affaccia alla stazione della sua Zahony, ultima fermata dell’Europa in pace, per vedere quanti scendano dal treno da Cop, prima città di un Paese trasformato in retrovia della linea del fuoco del Donbass. Passeggeri da est ora ce ne sono pochi, e sotto il tendone eretto dal Cesvi accanto alla stazione più dei rifugiati sono i rappresentanti di ong o professionisti della solidarietà globale.

Sarà forse per questo che lo stesso Helmeori, d’accordo con il Seirs, dirotta oltre frontiera la gran parte delle dieci tonnellate di solida solidarietà giunta con il Tir inviato da Parma. Il primo appuntamento è al solito deposito fuori dal centro, dove finora sono sempre stati scaricati i generi di prima necessità portati dalla Croce gialla. Steve, con l'autotreno stipato d'aiuti, è in attesa qui, dietro a un hangar, nell’ombra che si assottiglia sempre più. Il tempo per l’ennesimo caffè e per la conta delle fuoriserie targate Ucraina messe al sicuro subito dopo l’inizio dell’attacco russo. Il piazzale recintato e sorvegliato notte e giorno ora è semivuoto. A parte due Porsche di alta gamma, sembra quasi un parcheggio di pendolari (magari occidentali). Anche i proprietari delle supercar devono essere partiti: improbabile che anche loro siano tornati oltre il confine della patria in guerra.

Questa volta, le operazioni di scarico avvengono sul piazzale dei magazzini comunali, ex base di carristi dell’esercito ungherese, quando la Cortina di ferro correva ben più a ovest. Il sindaco è lì dal primo mattino, e alla vista del pulmino con i volontari parmigiani spalanca uno di quei sorrisi che fanno di lui un magiaro sui generis. Poi, sono sinceri abbracci. Tra Parma e Zahony l’intesa è stata ottima fin da subito, e ora si deve parlare di amicizia, di stima reciproca consolidata da continue prove sul campo. «Un’alleanza per la gente, la gente che soffre» sintetizza Luigi Iannaccone. La geopolitica non c’entra. Non sarà un’alluvione, non sarà un terremoto - le calamità nelle quali il Seirs ha accumulato decenni d’esperienza - ma una catastrofe provocata dall’uomo: gli effetti sono sempre quelli e anche le vittime si assomigliano.

Sono le 10, e il sole brucia da un po’. Dall’afa, sembra di essere in pianura Padana. «E domani (oggi per chi legge, ndr) sarà anche peggio - Boris sorride sadico, al volante del Manitou da balloni di fieno usato come muletto -. Si toccheranno i 42 gradi: il giorno più caldo dell’anno». Chi si potrebbe ringraziare per tanta puntualità? La scopertura del rimorchio mette subito in mostra il nucleo centrale del carico: le culle neonatali d’emergenza raccolte anche grazie all'impegno di Fondazione Munus. Se ne contano 340: ogni confezione contiene supporto, materassino, cinghie, zanzariera, lenzuola e copertina, salviette umidificate, pannolini e disinfettante. Sul lato dei cartoni, la scritta Pace in cirillico sovrasta il disegno di un neonato che dorme il sonno del giusto nel mondo dei folli. Luigi Iannaccone dirige i lavori da terra, il fratello Paolo dall’alto del cassone del Tir: lavora per dieci (è uno di quei soggetti che faticano di più a stare fermi) e si fa sentire per altrettanti, tra consigli, richieste, incitamenti. Nessuno si ferma un attimo: Paolo Rabaglia, Franco Zanichelli e Cesare Beghi smentiscono quanto affermato fino a poco prima. Cioè di volersi dare alla macchia al momento della fatica. «Lo facciamo per solidarietà con Ulliana e le altre donne che stanno lavorando così sodo» ridacchiano. Paolo accoglie l’esternazione tuonando un grazie. Ma c’è del vero nello scherzo. Come sempre, le donne ucraine dimostrano una gran forza, di braccia oltre che di volontà, caricando i furgoni con i quali hanno raggiunto Zahony, dopo ore d’attesa alla frontiera. E quando non è impegnata a tradurre anche Natalia Kobyliatska, la volontaria-interprete del Seirs solleva un cartone dopo l’altro, per quanto sia uno scricciolo. Le operazioni di scarico assomigliano a una corsa: forse anche per abbreviare l’esposizione al sole sempre più spietato. Di certo, per facilitare il compito di Ulliana Kapral, i cui passaggi alla frontiera sono dettati da permessi a tempo.

Questa volta, i furgoni a disposizione (e anche le braccia) sono meno del solito: un secondo viaggio sarà necessario, per immagazzinare a Cop culle e alimenti destinati ai territori sotto attacco. Indossati elmetto e giubbotto antiproiettile, sarà Ulliana, oltre a pochi altri volontari della sua associazione «Una goccia di bene», a guidare i furgoni destinati alla sue gente che resiste, centinaia di chilometri a oriente, fino al Donbass: per scelta o perché non sa come andarsene. Lì la guerra non si dimentica, nemmeno a mettercela tutta.

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