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Intervista

Pecchia: «Il Parma che vorrei»

di Paolo Grossi

28 Luglio 2022, 03:01

Paolo Grossi

Undici diversi club da calciatore, altrettanti, sinora, da tecnico. Fabio Pecchia è sempre stato un nomade e la sua carriera, tra Avellino e Madrid, tra Napoli e Parma, potrebbe diventare un romanzo.

«Non avevo tenuto questo conto, ma è vero che mi è sempre piaciuto evitare di fermarmi troppo in una comfort zone, anche se talvolta cambiare non è stata una mia scelta. In certi momenti e posti avrei anche optato per più continuità, in altri ho preferito io passare oltre».

Alla rinfusa, quali sono i primi nomi che le vengono in mente ripensando a tutti questi anni su campi e panchine?
«Cosi su due piedi dico Lippi, che a Napoli fu il primo a darmi una vera chance in serie A, poi Jonas Thern, gran mediano svedese, il bomber Daniel Fonseca. In tempi recenti dico Modric, il prototipo del centrocampista moderno e di gran classe, poi Benzema».

Quali sono i tecnici che hanno contribuito a formarla professionalmente?
«Tutti e nessuno, nel senso che con alcuni quando giocavo ho avuto un rapporto molto stretto, con altri ero in conflitto ma anche in questi casi ho imparato cose da non proporre ora alle mie squadre. Nei tre anni però in cui ho lavorato a fianco di Rafa Benitez ho imparato tanto, E' stata un'apertura totale sul modo di intendere il ruolo dell'allenatore».

Ha lavorato qualche anno all'estero affrontando lingue, culture e modi di intendere il calcio diversi.
«E' bello aver vissuto fuori dall'Italia, e se inglesi e spagnoli in fondo ci somigliano, il Giappone poi è stato uno choc e mi ha aiutato a capire come rapportarmi, ad esempio, con il gruppo di questo Parma, con i tanti ragazzi stranieri, a non dare per scontate cose che non lo sono».

La sua famiglia come ha reagito a questo ''nomadismo''?
«Moglie e figlie mi hanno seguito in Spagna, in Inghilterra e Giappone sono andato solo. Negli anni specie mia moglie (si sono conosciuti all'asilo ndr) ha subìto tanti cambiamenti. Per cambiare tanto devi avere alle spalle una famiglia che ha una certa attitudine alle novità e a sopportarne i disagi. A volte le mie figlie mi accusavano di non avere radici ma oggi credo abbiano capito che le radici si mettono nella famiglia mentre vivere fuori è stato per loro di grande valore».

Suo padre è stato importante per la sua carriera...
«E' stato il mio primo allenatore e ancora oggi a ottant'anni segue l'attività dei ragazzini del paese in cui vive (Lenola, provincia di Latina ndr). Con lui discutiamo spesso: ''Gioca con i libero'' mi dice, ''Schieri troppi attaccanti'' e via dicendo. Ma è bello così..»

A proposito del libero, lei ha sempre giocato con la difesa a quattro.
«E' una convinzione che ho sempre avuto. Finora non ho mai derogato, poi si può sviluppare in modi diversi, con tre punte, con due e via dicendo. Quello che serve a me in ogni caso sono i giocatori di fascia».

A Foggia nel 2009 lei passò dal campo, smettendo di giocare, alla panchina e, almeno formalmente, era il secondo del suo attuale secondo, Antonio Porta. Una cosa curiosa...
«Io ho cominciato a pensare di fare il tecnico quando ho avuto Spalletti alla Sampdoria. Con lui ho ancora un bellissimo rapporto. La scelta di chiudete la carriera a Foggia era anche dovuta alla possibilità che mi si aprisse la strada per allenare. Così è stato e un amico comune mi ha fatto agganciare Porta. Lui aveva molta più esperienza di me che ero all'inizio. Ma avevo la presunzione del calciatore che avendo fatto più di 300 gare in serie A non ha bisogno di studiare: invece dopo aver preso un paio di botte nei denti (esoneri a Foggia e Gubbio ndr) ho capito che i mestieri non si inventano e bisogna studiare».

A quei tempi a Foggia si respirava ancora l'aria di Zemanlandia?
«Come no. Zeman è nella storia del Foggia e della città di Foggia, oltre che del calcio. Lo ebbi anche come allenatore per tre mesi, che furono molto fecondi e mi lasciarono la voglia di studiare quello che proponeva la sua fase offensiva. In tanti ci hanno provato senza riuscirci. Ma il suo attacco così verticale alla porta è sempre stato un faro per molti allenatori».

Zeman a Parma, come più di recente Maresca, nonriuscì a concretizzare il suo progetto. Quanto pesa a voi allenatori questa spada di Damocle, molto italiana, del risultato da ottenere subito? Lei a Cremona è riuscito mirabilmente a conciliare gioco e risultati.
«A tutti i livelli, che si investa o no, agli allenatori si chiede subito il risultato. E anche attraverso le esperienze che ho fatto, dai top club a quelli di provincia, ho elaborato un metodo di lavoro che risulti applicabile, molto pratico, per cercare di abbreviare i tempi della formazione della squadra. Bisogna cercare di portare avanti di pari passo la costruzione e il risultato. Oggi l'allenatore deve avere questa linea di condotta».

Lei è anche uno dei pochi calciatori che si è laureato, nel suo caso in Giurisprudenza, negli anni '90 a Napoli. Che cosa le ha dato in più l'aver completato il corso di studi?
«Intanto una ''forma mentis'' che è quella di chi studia, di chi si prepara. Noi portiamo sul campo progressioni didattiche, passaggi propedeutici. e anche nella costruzione della squadra ci sono degli step. E poi quando studiavo e passavo la mattinata sui libri a preparare un esame, ecco, quando al pomeriggio arrivava l'ora dell'allenamento andavo al campo con un entusiasmo e una voglia di leggerezza che non aveva limiti».

Com'è nata la stagione vincente dello scorso anno a Cremona?
«Intanto dove: proprio qui, nella hall dell'albergo che ci ospita a Pinzolo. Eravamo qui un anno fa con i grigiorossi e abbiamo fatto tante di quelle riunioni per definire i programmi. Per prima cosa abbiamo puntato sulla forte identità tecnica e poi sul creare senso di appartenenza al gruppo. E questo anche se avevamo ben 10 giocatori in prestito. All'inizio del campionato eravamo la Cremonese dei giovani, e per tanti un po' una sorpresa. Nel girone di ritorno l'atteggiamento degli avversari è cambiato, e andavamo a giocare da primi o secondi in classifica. Cambiava l'aspetto psicologico. Tutti ci aspettavano ben preparati e per noi è stato uno step di crescita notevole. E lì la squadra ha dato segnali importanti. In quei momenti poi, penso anche alla gara di ritorno con il Parma, secondo me abbiamo messo in campo più voglia di vincere degli avversari».

Proprio quella sera contro il Parma ma un po' in tutto il campionato è stata impressionate la sua capacità di fare turn over dentro la gara e da una gara all'altra senza scompensare la squadra. Come ci si arriva?
«Ammetto che questo è un grande insegnamento di Rafa Benitez. Lui per vent'anni ha lavorato in club che disputavano 60 gare a stagione. Lì la gestione della rosa è fondamentale per essere sempre competitivi. E' un lavoro quotidiano quello di tenere tutti in tiro, ma non solo mio, di tutto lo staff. Si parla di dare fiducia ai giocatori, ma i giocatori vogliono solo giocare, se li tieni fuori è inutile raccontargli le favole. E lì diventa un lavoro costante per far sì che tutti si sentano parte del progetto. Il nostro cambio di passo a Cremona è arrivato in quelle dieci partite da giocare in poche settimane dove si andava in campo ogni tre giorni. Mi sono affidato totalmente alla mia rosa, rischiando tanto, cambiando anche 6-7 uomini da una gara all'altra, e ricevendo risposte eccezionali».

Il suo Parma come nasce e a oggi dove si può collocare nella griglia di partenza della B?
«Adesso si possono dire tante cose ma la mia idea è sempre quella: costruire un gruppo forte con un'identità di gioco. Poi lo dirà il campo dove potremo collocarci. Qui si viene da un anno assai complicato, e intanto la serie B si alza di livello sia per le nuove prestigiose partecipanti sia perché chi ci è rimasto ha un anno di esperienza in più e nuove ambizioni. Dobbiamo tutti sapere che ci sarà lotta sino all'ultimo minuto dell'ultima partita ed essere pronti a questo. Dai ragazzi sto ricevendo segnali positivi ma adesso onestamente è ancora presto per fare previsioni».

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