LUTTO
Di fronte alla scomparsa di Pietro Citati non mi sento solo svuotato, perso, inerme: mi chiedo quando, evaporate le ultime sbornie della critica “scientifica”, si comincerà a riconoscerne davvero la grandezza. Citati è stato assai più di un sagace, elegantissimo critico letterario. Forse si potrebbe definirlo semplicemente un grande scrittore, ma nemmeno questa definizione sarebbe in grado di avvicinarci al nucleo della sua opera se non aggiungessimo che la sua scrittura sfugge alle caselle dei generi letterari.
Capace di nutrirsi degli apporti più disparati, di spaziare dalla narrativa alla filosofia alla poesia, dall’antico al moderno al contemporaneo, dalla letteratura alla pittura, dalla musica alle vie iniziatiche dello spirito, dalle esperienze estreme degli schizofrenici alle visioni dei mistici, dal fondo cristiano dell’Occidente agli orizzonti molteplici dell’Oriente, o dal Parmigianino a Chardin, da Potocki a Mozart, da Goethe a Manzoni a Dickens, da Proust a Kafka, da Gadda a Borges, Citati è stato un avventuriero del possibile e dell’impossibile, un esploratore di mondi reali e ipotetici, un artigiano d’immagini nitide e sfuggenti, un intarsiatore di parole proprie e altrui, un creatore di arazzi testuali lucenti e cangianti, pullulanti di figure, tropi, personaggi, fantasmi tessuti con la matassa d’una mente erratica e porosa, col filo di un’anima perennemente in fuga.
Ciò che Citati detesta più di tutto è quel bisogno di semplificare, di stringere in figure geometriche il pensiero che è proprio delle tendenze categoriali, ideologiche della critica, poco importa se di matrice strutturalista, marxista o freudiana. Qualcosa come una sete fondamentale di orizzonti sempre aperti, di creazioni percorse dal soffio metamorfico dello Spirito, o dallo spirito ventoso della Metamorfosi, lo ha sospinto, nel corso del suo lungo cammino interpretativo e creativo, verso incontri sempre nuovi e diversi: lo ha indotto a scrivere libri ora in bilico tra la biografia, il panorama storico e la rêverie ora rutilanti di riferimenti ad altri libri, ora intarsiati coi colori del mito e del sogno ora lievi e ironici, vibranti della cosiddetta realtà, echeggianti di conversazioni, punteggiati da istanti colti al volo nel fruscio del tempo.
In questa vastità e molteplicità di esperienze e di forme una prospettiva è costante: il desiderio di misurarsi con gli aspetti polari del mondo (le luci e le ombre, il bene e il male, l’essere e il nulla, la pesantezza e la grazia); il gusto dell’incontro-scontro, del contrappunto, dell’onda alterna, del ritmo cardiaco, dell’altalena, del paradosso. Tutto – il flusso dei grandi libri come quello del mare, il respiro delle creature viventi come la toccata e fuga delle notti e dei giorni – è una danza perpetua tra movenze simili e opposte, un alternarsi di suoni e silenzi, una polifonia di note in battere e in levare, e compito del saggista sensibile alle risonanze “cosmiche” dei testi – quelle risonanze che sfuggono ai critici fasciati dai paraocchi dello storicismo, chiusi nell’angustia dei riscontri ideologici – è, secondo Citati, cogliere questi suoni, questi rintocchi, questi brividi segreti e profondi, farli decantare nella propria anima e restituirli come echi, increspature o riverberi nella scrittura.
Fra tutti i testi in cui Citati evoca le linee-guida di una simile poetica critica, I giochi del Tao (apparso prima nel Sogno della camera rossa, 1986, poi nella Luce della notte, 1996) è uno dei più illuminanti e pregnanti. Grazie al suo lungo lavoro su Goethe, Citati è giunto assai presto a capire quanto limitata sia, nell’epoca della mondialità, ogni prospettiva critica chiusa nelle categorie occidentali. Esplorando via via le immense regioni della Qabbalah, delle Mille e una notte, del Sufismo e del Taoismo, egli si è mosso su una falsariga goethiana, e la lezione del maestro del Divano occidentale-orientale non è mai rimasta per lui solo un presupposto ideale o uno stimolo astratto: il suo interesse per l’Oriente – per i diversi Orienti dell’Ebraismo, della Persia, dell’Islam e della Cina, con qualche incursione in Giappone – è un capitolo molto vivo e personale della sua opera. Nel Taoismo amato da Citati si annida la visione sapienziale suprema dell’universo come Metamorfosi, come flusso acquatico, come unione aperta di fenomeni opposti: secondo i maestri del Tao l’universo è l’Uno e insieme il molteplice, è differenza e ripetizione, è forma e vuoto, vuoto e forma. Come Citati osserva benissimo, è mirabile la capacità dell’autore del Chuang-tzu (o Zhuang-zi) di far interagire fenomeni opposti in un testo “fisso, concentrato, immobile”, “dedito alla rivelazione e all’adorazione dell’Uno ineffabile” e insieme cangiante “come la nuvola, la pioggia, l’arcobaleno – innamorato della cedevolezza, della molteplicità, delle contraddizioni”. A un tale intreccio spirituale ed espressivo tende anche la scrittura di CItati: anche nei suoi saggi la passione dell’assoluto (la sete dell’Uno, la fame di Dio) si coniuga col gusto del molteplice, del mutevole, del vario, dell’iridescente, del polimorfo; anche nei suoi libri il pathos della trascendenza abbraccia il piacere sensibile dell’immanenza, della “bellezza variegata”, della vita come “realtà colorata di re, di saggi, banditi, contadini, idioti, animali, montagne, fiumi e alberi”. Confrontandosi con il lato assoluto (spirituale, sacro, metafisico) e con quello relativo (fenomenico, screziato, affabulatorio) dei grandi libri, l’opera critica di Citati si dispiega, allo stesso tempo, come il mondo di un mistico e di un romanziere, di un teologo e di uno scenografo, di un esploratore dell’invisibile e di un appassionato di caleidoscopi, di lustri cataloghi, di cortei di figure da lanterna magica.
La mia amicizia con Citati è stata grande come quella che mi ha legato ad Attilio Bertolucci. Cosa potevo scorgere nei suoi occhi verdazzurri se non la coesistenza tra una disposizione all'ascolto paziente, totale di ciò che avevo a mia volta da dirgli e una specie di fondo refrattario a ogni presa, la luce di una straordinaria, irraggiungibile libertà interiore? Anche questo suo essere allo stesso tempo vicinissimo a me, e perso chissà dove, era una manifestazione del Tao, la forma di una saggezza paradossale, diversa?
Mentre lo guardavo, e cercavo di dirgli qualcosa che avesse un senso, non mi ponevo certo domande simili, ma esse risuonavano da qualche parte dentro di me. Tutto ciò che potrei rispondere, anche adesso, è solo questo: che proprio nel suo essere insieme malleabile e coriaceo, morbido e intransigente, partecipe e distaccato dal mondo, si annida il segreto del suo fascino, della sua impareggiabile magia di scrittore e di uomo.
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