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La storia

Dal mare a Compiano: quelle vacanze in bianco e nero

Dal mare a Compiano: quelle vacanze in bianco e nero

di Mirella Cenni

25 Agosto 2022, 03:01

Quel “cambiamento d’aria” mi cambiò. Negli anni che vennero, con l’arrivo dell’estate, sentivo crescere in me uno stato di sospensione. Sì, perché segnò l’inizio di tante colonie. Spiavo nella via l’arrivo del postino con la lettera delle istruzioni e data di partenza. La mamma attaccava vicino alle mie cifre, sempre uguali, nuovi numeri alla biancheria. Mai avrei osato dire che non volevo andare, che lontano avrei pianto: le otiti dell’inverno, le tonsilliti, i “febbroni di crescita” mi rendevano indifendibile, e ingrata: quanti bambini non avevano la “fortuna” di andare al mare! E fu la volta di Marina di Massa, con il CIF (Centro Italiano Femminile). Venne anche mia sorella Carla, di qualche anno più grande. Ma la cosa non fu consolatoria: a casa era rimasto mio fratello Mario, di poco più piccolo, e ne era nato uno tutto nuovo, Fausto. La mamma sarebbe stata assorbita dalle loro cure… Mi avrebbe pensata? Continuai a soffrire la lontananza di casa mia. Il raduno di partenza fu in via Alberto Riva al Dispensario, e partimmo con i pullman. Arrivati, la procedura fu come la prima volta a Viserba: ispezione ai capelli, camerata, vestizione…

Nella grande camerata ancora assonnata della colonia venivamo svegliati dal suono lacerante della sirena, a cui seguiva la voce della direttrice signora Amelia Ponzi, che l’altoparlante rendeva metallica; sillabava chiara gli ordini da seguire: alzabandiera, preghiere del mattino, ginnastica, refettorio.

Nella grande pineta della colonia, bambine che venivano dalla campagna mi insegnarono a fare cestini con gli aghi dei pini, e mi dissero come nascevano i bambini. Nel cortile, dopo l’ammainabandiera, si diceva il rosario tutte le sere, e la messa la domenica mattina. La direttrice ci parlava dalla finestra centrale con l’altoparlante. A metà turno era permesso ai genitori di farci visita. I miei non vennero mai, a nessuna colonia: la spesa avrebbe gravato, e poi gli altri fratelli da accudire, e per mio padre, all’Eridania, iniziava la lavorazione delle barbabietole. Il mattino era tutto un correre di bambini ai cancelli, di abbracci e baci. Ma era la sera, nella camerata, il dramma: chi aveva visto i genitori piangeva, chi non li aveva avuti di più.

La stanchezza poi ci prendeva tutti, e si dormiva. Quasi sempre dalle colonie scappava qualche bambino, solitamente maschi. Io li invidiavo tantissimo. La cosa non doveva sapersi per non creare emulazione. Prima che il turno finisse, vennero le autorità ecclesiastiche di Parma. Fu organizzato uno spettacolino in loro onore. Fui scelta e mi fu affidata la canzone dello “Spazzacamino”.

Ecco io credo che un bambino possa piangere anche per molto meno di questo: la canzone diceva così: «È Natale non badare, spazzacamino / se ogni bimbo ha un focolare / un balocco vicino. / Tu t’accosti per guardare / quando un bambino / ti fa cenno “non guardare / va’ a spazzare il camino”». Se fin qui reggevo alle lacrime, il ritornello mi distruggeva: «Io la mamma non ho / né un lettuccio sì candido e lieve» e insisteva «Io la mamma non ho / il mio letto è soltanto la neve».

Be’, provateci voi ad avere sette anni lontano da casa e cantare queste parole. Ma ero orgogliosa di essere stata scelta e dovevo farcela. La provai, anche da sola, tante volte per abituarmi alle parole. Venne il giorno: le autorità erano in prima fila comprese nel loro ruolo.

La direttrice disse alcune parole e si cominciò… Quando fu il mio turno mi ripetevo che non dovevo piangere. Con il viso sporco di nero, il costume stracciato e uno scopino sulla spalla, entrai. Dal pianoforte le prime note…

Attaccai giusta: la voce usciva chiara, intonata, e con la voce tutta la mia tristezza. Ressi bene la strofa, ma quando intonai “io la mamma non ho”, gli occhi cominciarono a zampillare come una fontana da soli, mentre la voce continuava a cantare. Alla fine feci un inchino. Gli applausi e gli occhi lucidi del pubblico mi fecero capire che ce l’avevo fatta.

Crescevo, ma continuavo a “cambiare aria” ogni estate. A nulla valse lasciare le mie tonsille nello studio del dottor Giuseppe Banchini, né lo stringermi nel bustino del dottor Ercole Negri. Il dottor Raul Paselli, che aveva aperto il suo primo ambulatorio in via Francesco Rismondo, diventò il nostro dottore. Convenne che un turno anche in montagna mi avrebbe rinforzata di più. Continuai a volergli bene, perché aveva gli occhi buoni, ed era socialista come mio padre. E così fu Compiano, Corniglio, Bedonia e via… Pontificia, CIF, Comune di Parma… La cosa che le rendeva simili era il cantare.

Si cantava sempre: di mattina, di sera, in passeggiata, nei boschi, sul mare… Il canto d’addio alla colonia di Marina di Massa, che cantavo con gioia infinita, diceva: «Caro Vignali – doveva essere il custode – aprici il cancello, / che il tempo l’è bello / e noi vogliam partir. / Noi partiremo per la città di Parma / a rivedere i nostri genitor. // Se gli amici mi diranno: / dove sei stata questo mese? / Sono stata a Marina–di–Massa / per la mia guarigion». Ma era nel ritornello che esplodeva la mia felicità: «Addio signorine dai riccioletti, / sentir fischietti non ci vengo più. / Addio cuoche, cuoche beate, / mangiar patate non ci torno più».

Certo è che il repertorio canoro non offriva molto da stare allegri, tra passato e presente: erano sempre colombe che volavano, capinere e rondini che partivano senza salutare, barche che tornavano sole, e miniere e mamme, tante, e belle; e poi i mazzolin di fiori, fazzoletti da lavare alla fonte… Quando andai con il Comune di Parma fischiava anche il vento e la bufera infuriava, e i partigiani partivano salutando “Bella ciao”, e in montagna morivano gli alpini, non prima di aver lasciato un pezzo di loro a mamma-morosa-patria, e sventolava qualche bandiera rossa. Insomma, non so cosa noi bambini capissimo davvero di quei canti, ma aiutava a passare il tempo e la distanza da casa.

Col Comune di Parma andai con mia sorella a Miramare. Fu lo zio Arturo, fratello grande di mio padre, partigiano, comunista della prim’ora, amico del sindaco Giacomo Ferrari – aveva il suo magazzino di frutta sotto palazzo Medioli in Piazza Ghiaia – che fece in modo che venissimo prese tutt’e due nello stesso turno.

Ero più grande. Piangevo meno. Sapevo contare i giorni che mancavano al ritorno, e qualche malizia cominciavo a impararla: come liberarmi del cibo che non mi piaceva, la scelta iniziale del letto lontano dal baldacchino della vigilatrice… C’era comunque lì un sentirsi più liberi: niente confessionali e penitenze.

Anche lì poi venivano in visita le autorità: Primo Polizzi, Bice Leoni… Il dottore della colonia era Giuseppe Copercini. Tutti avevano partecipato alla Resistenza Partigiana. Anche per la loro visita si faceva uno “spettacolo”. La canzone che mi fu assegnata quella volta era decisamente più allegra: «Son fioraia e mi chiamo Mirella / vendo i fiori che mamma mi dà / tutti dicon che son bella / ma non so, non so, non so. // Fiori chi vuol comprar, / mughetti e gelsomini…».

Quando partivo per la montagna, solitamente all’ultimo turno, le giornate cominciavano ad accorciarsi. Scoprivo i castelli del nostro Appennino, grandi e austeri: Compiano, Corniglio, Bardi… Solo le lunghe camminate, “per sentieri già segnati”, a raccogliere more e fiori mi stancavano al punto che quando, al tramonto, sentivo arrivare col buio la malinconia, mi abbandonavo quasi serena, rassegnata. Sta di fatto che in nessuna colonia che mi vide negli anni presi mai “un castigo”: essere messa in ginocchio vicino al baldacchino della vigilatrice (sperando che non s’addormentasse); la merenda o la frutta tolte, o il dolce della domenica. Nei miei ritorni, ad aspettarmi trovavo sempre la mamma. Sempre con lo stesso vestito di seta, ocra con le palmine nere. E, a casa, lo stesso menù: la vécia col caval pist, che solo lei faceva così buona.

Mirella Cenni

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