Intervista
La rinascita dopo un periodo buio, la seconda chanche della vita, un nuovo inizio sul filo della passione. Così Alessandro Carlini, giornalista dell'Ansa, scrittore, da qualche anno «parmigiano», visto che per amore si è trasferito nella nostra città, racconta i suoi libri, se stesso, il rapporto con le parole. Penna che ha creato il procuratore Aldo Marano, vincitore dei premi «Città di Como» e «Carver», considerato dai lettori di Robinson, con «Gli sciacalli», tra i migliori scrittori di narrativa 2021 (la sua opera tra le più votate su 850), Carlini presenterà il suo ultimo libro, «Il nome del male», domenica alle 18 alla libreria Fiaccadori in strada al Duomo.
All'inizio del suo sito appare una citazione di Vasilij Grossman: «Non c’è niente di peggio dell’essere figliastri del proprio tempo. Non c’è sorte peggiore di chi vive in un tempo non suo». Se potesse salire sulla macchina del tempo, dove vorrebbe fermarsi?
Questo tempo, il contemporaneo, sotto forma di cronaca lo descrivo già, direi minuto per minuto, lavorando come giornalista dell’Ansa. Serve tempo per lasciar sedimentare e capire meglio chi siamo e dove andiamo. Nell’attualità si racconta ma non si spiega. Ecco perché serve il percorso a ritroso. Se fosse possibile mi fermerei sicuramente negli anni fra la Prima e la Seconda guerra mondiale per capire meglio come l’umanità sia passata da una inutile strage a un’altra peggiore.
Perché ha ambientato i suoi tre libri negli anni del Fascismo? Cosa la interessa, dal punto di vista letterario e umano, di quegli anni?
In quel tempo si compie il destino tragico della nazione e poi la rinascita. Ma è rimasta una frattura causata dalla guerra civile all’interno della guerra mondiale. Frattura che non si è riparata del tutto se pensiamo a quanto la politica del 2022 torni su certe divisioni mai consegnate del tutto ai libri di storia. Parlando di libri, però, dall’esperienza di quegli anni sono derivate le opere di alcuni fra i nostri scrittori migliori, da Beppe Fenoglio a Cesare Pavese fino al mio concittadino Giorgio Bassani. Sull’umanità in guerra hanno scritto pagine indimenticabili.
Il personaggio del sostituto procuratore Aldo Marano si ispira alla figura del giudice Antonio Buono: che peso ha nelle sue opere il lavoro di ricostruzione storica?
È lungo e difficile. Ma per quanto mi riguarda la finzione deve sempre restare fra i binari della storia. Per il giudice Buono ho potuto usare sia il suo memoriale inedito sulle indagini riguardanti la banda della 1100, attiva a Ferrara tra il maggio e l’ottobre 1945, che il suo libro di memorie. Un grande aiuto.
I tratti letterari fondamentali del procuratore Aldo Marano.
È caparbio, in certi casi cocciuto, crede in una legge che rispetti l’uomo, non certo quella fascista contro la quale si ribella, è riflessivo e solitario. Un magistrato che ce ne ricorda altri nella storia italiana capaci di anteporre il dovere alla loro vita privata. Per poi, nel caso di Marano, pagarne le conseguenze.
Perché la scelta dei gialli investigativi?
Eh, forse il giallo o il noir è il genere migliore per affrontare tante vicende della storia italiana. Se pensiamo ad esempio a Marano (come successo nella realtà al giudice Buono) che negli stessi mesi indaga sui crimini fascisti e anche sulla resa dei conti nell’immediato Dopoguerra... per scoprire poi che le due realtà sono connesse.
Di lei è stato scritto che appare «enigmatico come Camilleri, oscuro come Lucarelli». Si riconosce in questi paragoni?
Due grandi scrittori, che ammiro e ho letto. Ma ho tratto maggiore ispirazione da altri autori, italiani e stranieri, grazie anche ai tanti anni vissuti all’estero, soprattutto nei Paesi anglosassoni, Usa e Gran Bretagna.
Per «Gli sciacalli» è stato citato Giorgio Bassani e si è parlato di «romanzi del ritorno», ma anche di modelli americani, su tutti Ellroy e Capote. Si riconosce in questi modelli?
Certo. Bassani nelle sue «Cinque storie ferraresi» aveva descritto proprio quel clima di violenza iniziato con la cosiddetta lunga notte del ‘43, l’eccidio fascista del Castello, e proseguito fino alla violenza residuale del Dopoguerra. Ho cercato di spingermi oltre raccontando l’epopea criminale della banda della 1100, realmente esistita e composta da pseudopartigiani ed ex repubblichini. In certe pagine si possono ritrovare le influenze dei grandi autori americani e perfino di una serie come «True Detective» con descrizioni quasi cinematografiche. Del resto siamo figli dell’epoca delle immagini e questo influenza fortemente la scrittura. In questo caso sono sicuramente un figlio del mio tempo.
Ferrara e la sua provincia hanno un ruolo potentissimo nei suoi romanzi. Aldo Marano potrebbe abitare in un'altra città?
Marano viene catapultato dal destino e dalla carriera a Ferrara, è infatti di origine irpina. Dai monti alle nebbie, si sente inizialmente spaesato ma poi si abitua, entra nella mentalità dei ferraresi, e cerca un barlume di verità in mezzo alle brume che avvolgono tutto. Nell’ultimo romanzo da poco uscito della serie, forse trilogia, su Marano, «Il nome del male», si esplora invece la provincia ferrarese che tende al mare e sembra una frontiera di anime perse tra incubi e leggende.
Ha scelto di vivere a Parma: potrebbe anche ambientare qui un romanzo?
Sicuramente, è una città piena di fascino storico che si presta moltissimo. Fra l’altro il mio romanzo d’esordio, «Partigiano in camicia nera», è in parte ambientato nel Parmense, nella zona di Collecchio. Il protagonista è un mio lontano parente, Uber Pulga, sottotenente repubblichino che passa coi partigiani e viene fucilato dalla Rsi per alto tradimento dietro il cimitero di Gaiano nel febbraio del 1945. In quel caso un fascista passava coi partigiani ma pagava con la vita la sua scelta per un’Italia migliore, libera e democratica. Tutto il contrario di quanto fanno gli «sciacalli» nel mio romanzo omonimo.
Giornalista e scrittore: come convivono queste anime e quanto la scrittura giornalistica influenza quella letteraria?
La tecnica giornalistica è grande maestra di scrittura e non è un caso se grandi giornalisti sono stati anche grandi scrittori, come il già citato Grossman. Però accade anche il contrario, certi giornalisti si credono scrittori solo perché per l’inerzia del mestiere possono riempire un certo numero di pagine rendendole leggibili. Il rischio è quello di non dare il meglio, di accontentarsi. Fenoglio, che non fu giornalista ma avrebbe potuto esserlo, diceva: «Scrivo per un'infinità di motivi. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera».
Quando e perché ha iniziato a scrivere romanzi?
Una decina di anni fa. Dovevo raccontare la storia di Uber Pulga e anche della mia famiglia, rivelatasi poi una vicenda che parla dell’Italia intera.
Sta lavorando ad un altro libro?
Sì, però vi dirò di più nei prossimi mesi. Promesso.
Quali i libri a cui è più legato?
Due su tutti, «Il partigiano Johnny» di Fenoglio e «Vita e destino» di Vasilij Grossman. Immensi, pubblicati postumi, quanta dedizione per quelle opere e quindi per la letteratura.
Se dovessi esprimere tre desideri…
Nella mia vita ho già espresso il più grande e si è avverato. Il fatto che abbia avuto una seconda chance e sia qui a parlarne ne è la riprova.
Cosa le piace di questa città.
L’opportunità di poter fuggire sulle colline quando vuoi. Del resto c’è uno spirito partigiano dentro di me.
Anna Maria Ferrari
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