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Dall'uovo di legno alle rotelle per anolini: quegli oggetti di una volta

Dall'uovo di legno alle rotelle per anolini: quegli oggetti di una volta

di Lorenzo Sartorio

26 Settembre 2022, 03:01

Ve lo ricordate quel magnifico film «Gli Intoccabili», diretto da Brian De Palma, con la superlativa partecipazione di uno straordinario cast di attori tra i quali due mostri sacri del mondo internazionale del cinema come Kevin Costner e Sean Connery? In questo caso, però, vogliamo prendere in esame gli «introvabili», quegli oggetti d’uso comune per le nostre nonne oggi divenuti, non solo merce rara per lo più introvabile, ma anche «intoccabile» proprio dal timore che, data la veneranda età, possa andare in frantumi. Comunque, chi è un appassionato di oggettistica retro, anche la più umile e, cioè, quella che corredava le patriarcali cucinone d’un tempo, nei vari mercatini delle cose antiche può trovare qualcosa di interessante com’è capitato sovente al cronista.

Meglio ancora quando la si può osservare da vicino nei vari musei etnografici calata in un appropriato contesto con tanto di documentazione storica. Ma vediamo ora di prendere in esame alcuni «introvabili» facendo un salto indietro nel tempo. Per difendersi dalle mosche l' astuzia muliebre inventò la «moschéra». Una volta ogni casa, sia aristocratica che plebea, ne possedeva una, due a volte tre. La «moschéra» era una gabbietta con intelaiatura fatta di legno abbracciata da una rete a maglie fittissime che non consentiva a mosche e moscerini di posarsi sui cibi. La «rezdóra» in questo tabernacolo casalingo, custodiva cibarie varie (specie avanzi) che potevano essere insidiati dagli insetti.

La «moschéra», solitamente, era posizionata nell’angolo più riparato della cucina. Ovviamente, in estate, veniva sistemata nella zona più fresca, mentre, in inverno, poteva essere collocata nella stanza fredda, ossia quella non riscaldata da camini o stufe o, addirittura, veniva appesa nel balcone o fuori dalla finestra rappresentando il frigidaire ante litteram. Per combattere le mosche i nostri vecchi utilizzavano anche la vecchia paletta dal manico in legno o in alluminio sulla cui punta era inchiodata una leggerissima retina, sempre in alluminio, poi sostituita dalla plastica. Oltre alla «palètta par masär il mòsschi», un altro aggeggio ora introvabile era il «cocón äd lèggn», ossia una sorta di oggetto di legno a forma di uovo che consentiva alle donne di cucire meglio la parte rotta della calza. Ed allora, pazienti ed estrosi «maringón», con il legno duro di scarto modellavano e forgiavano, utilizzando il tornio, una sorta di uovo che le donne custodivano gelosamente nel cestino dei loro attrezzi da lavoro estraendolo quando in veglia, d’inverno nelle stalle e d’estate sotto il portico o nei borghi mentre cicalavano con le altre comari, riparavano pantaloni, biancheria e appunto calzini infilandoci dentro il «cocón äd lèggn». Chi era specializzato nella realizzazione di queste uova lignee erano i famosi «coconén». Uno degli ultimi «coconén» parmigiani, come ricordava l’indimenticato poeta Fausto Bertozzi, fu un certo Belli che, nella sua bottega in Bassa dei Magnani, vendeva «óv äd lèggn» e setacci «zdas da farén’na». Un attrezzo, il setaccio da sempre bersagliato dal sarcasmo parmigiano in quanto, com’è noto, lascia passare la parte buona trattenendo nella retina le scorie. Da qui, la famosa frase «cojón cme un zdas» riferito a persone non del tutto sveglie. E, a questo proposito, anche oggi, non c’è che l’imbarazzo della scelta.

Un altro oggetto, ieri d’uso comune, ed oggi tra la serie degli «introvabili», era la «lùmma a òli frusst», ossia la lanterna alimentata da olio usato e, talmente logoro, che non avrebbe fritto nemmeno una ciabatta. La «lùmma» rischiarava, per quanto poteva, le serate dei nostri nonni, sia nelle case che nelle stalle durante le veglie. Ogni sera, a turno, i capi - famiglia dovevano portarsi appresso «l’òli frusst» per alimentare la «lantèrna dal filòs» (la luce della veglia) e quindi le spese venivano equamente distribuite per non gravare più di tanto sul padrone di casa. E, sempre per quanto concerne le autarchiche illuminazioni di ieri, esiste un esemplare, conservato nel Museo Etnografico di Villafranca Lunigiana.

Si tratta del «lampadario a formaggio» che, grazie al grasso che colava dal formaggio mentre stagionava, consentiva di accendere lo stoppino alimentato dal prezioso «sudore» del pecorino. Un altro attrezzo che potremmo classificare tra gli «introvabili» è lo stampino degli anolini (sia di legno che di ferro) che, addirittura, le «rezdóre» si tramandavano di madre in figlia come la «tondén’na venäda» (fondina venata) che conteneva il vino rosso e veniva posta sulla pentola dello stracotto per fargli assorbire gli umori del vino. Faceva compagnia allo stampino la rotellina dentata dal manico di legno per tagliare la sfoglia. Lo stampino doveva e deve essere di legno duro, compatto e resistente che non si scheggi e, quindi, crei anolini esemplari delle stesse perfette e armoniose dimensioni dell’ombelico di Venere. Forse pochi sanno che nella nostra città, da 20 anni a questa parte, un provetto artigiano realizza, per diletto, i veri stampini per anolini.

Una storia bellissima quella di Alberto Minari, nativo di San Pancrazio, di famiglia contadina che da ragazzino approdò nella bottega di un «maringón» di Baccanelli. Dopo di che fu assunto dal maestro falegname parmigiano Dialma Ampollini (con bottega di via Turchi) alle cui dipendenze rimase una vita. In questi anni, di stampini, Alberto, ne ha fatti migliaia. Ma il riconoscimento più bello per Minari furono le parole di Baldassarre Molossi, indimenticato direttore della Gazzetta di Parma ed accademico storico dell’Accademia Italiana della Cucina.

«Lei, Minari - disse Molossi -, ha creato lo stampino perfetto dell’ombelico di Venere, di 28 mm di diametro. Bravissimo!!». Un altro artigiano abilissimo nel realizzare quelli che oggi sono diventati oggetti rari fu l’indimenticato Raffaello Gandolfi, popolare personaggio molto noto e stimato in Val Cedra. Parmigiano, di famiglia originaria di Alberi di Vigatto, ma residente a Monchio delle Corti, paese della moglie, fu l'alleato provvidenziale e fedele di tante «rezdóre».

Cesellatore e stilista pure lui, come Albero Minari, degli stampini per gli anolini realizzati in legno di faggio, noce o maggiociondolo, fu uno dei pochi artigiani rimasti, se non l'unico, che nel suo laboratorio monchiese, si dilettava a creare con il legno giusto grattugie per grattugiare il formaggio («razóri»), «moschére», palette per difendersi dalle mosche, mortai, taglieri, stampi per spongate con tanto di fregi beneauguranti come la margherita ed il sole celtico. Ed ancor : porta-sale e porta - fiammiferi da appendere in cucina come usavano fare le nostre nonne. E a proposito di spongate, in un paesino sperduto, dopo il passo del Cirone, nel cuore della Val D'Antena, Pracchiola, dove ogni famiglia fa la spongata secondo le antiche ricette, sicuramente, in qualche cucina saranno conservati gli stampi che ripropongono la simbologia della beneaugurante margherita lunigianese oppure delle foglie di castagno.

Già, gli «introvabili», amabili tracce della vita di ieri dei quali possiamo trovare interessantissime documentazioni nei volumi di don Enrico Dall’Olio, il padre dell’etnografia parmigiana, oltre rari reperti custoditi in alcuni musei etnografici come quello di Ozzano Taro, Villafranca Lunigiana, San Pellegrino in Alpe (Garfagnana) e Coenzo grazie alla lungimiranza, alla sensibilità ed all’amore nei confronti della propria terra dei rispettivi fondatori di queste stupende realtà assolutamente da visitare: Ettore Guatelli, Germano Cavalli, don Luigi Pellegrini e don Learco Paini.

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