in tribunale
Reggio Emilia Una madre così lontana che a lui venne sempre da chiamarla Alessia: «mamma», forse nei suoi discorsi sarebbe diventata solo dopo essere stata uccisa a calci e pugni nel 2015 da Mohamed Jella, colui per il quale aveva perso la testa. Aveva 18 anni, Mirko Genco, e quello fu il suo ingresso nell'età adulta. Nemmeno il papà sembra avergli dato affetto: troppo impegnato a bere, a drogarsi e picchiare la compagna e il di lei padre. Tra i primi ricordi d'infanzia, il 25enne parmigiano alla sbarra in Corte d'assise a Reggio ha una rissa casalinga alla quale assistette a tre anni. Più netta nella sua memoria dell'omicidio di Juana Cecilia Hazana Loayza, la 34enne di origini peruviane avvenuto la notte tra il 19 e il 20 novembre del 2021, del quale è accusato. Un delitto atroce, commesso con uno strangolamento prima, durante una violenza sessuale, e un accoltellamento poi. Ora ci si chiede anche quanto e se sia stato «folle». La corte presieduta da Cristina Beretti (giudice a latere Roberto Ghini) «vista la familiarità, l'infanzia e l'adolescenza travagliate, la personalità» ha deciso di sottoporre l'imputato a perizia, incaricando lo psichiatra Renato Ariatti.
Era forse l'unica possibilità per cercare di evitare l'ergastolo a Genco. Alessandra Bonini, l'avvocato che sostiene il peso della difesa in un processo già partito con il colpevole (il suo assistito è reo confesso dall'arresto) punta tutto su questa possibilità. Era chiaro e diventa ufficiale al termine di un'udienza di oltre 9 ore al netto delle pause. Ad aprire la strada alla richiesta del legale, Giuseppe Cupello. «Qui si va ben oltre l'infanzia difficile - dichiara lo psichiatra -. Siamo di fronte a un disturbo di personalità schizotipico. Una perizia sarebbe utile».
A nulla valgono le opposizioni del pm Maria Pia Pantani, che cerca di far valere le diagnosi di psichiatri e psicologi (l'ultima, nel carcere di Modena, incontra Genco ogni martedì) che studiano da tempo la personalità dell'imputato. «Tutti i loro certificati - sottolinea il pm - attestano senza ombra di dubbio l'assenza di patologie tali da pregiudicare la capacità di intendere e di volere». In linea con lei l'avvocato Federico De Belvis. «Lei in un paio d'ore di colloquio è arrivato a questa conclusione?» chiede il legale che assiste l'ex compagno di Cecilia e il suo figlioletto di due anni e mezzo. «Da questo e dallo studio degli atti» risponde lo psichiatra. «E perché proprio con Cecilia dovrebbe essersi spinto fino al punto di uccidere?» chiede Giovanna Fava, che difende (anche dalla proiezione di immagini crudeli) la mamma di Cecilia, Dina Loayza: parte civile a sua volta contraria all'ipotesi di perizia. «Perché la vittima era madre di un bambino piccolo» replica Cupello. Come se nel figlioletto della ex (mai vista come tale) uscita per una sera con gli amici Genco avesse ritrovato sé stesso abbandonato. Anche se il bambino era con la nonna, la stessa che oggi deve fargli da mamma per una notte senza fine e che non chiede vendetta, ma «solo che quest'uomo non possa fare male ad altre donne innocenti».
La notte che l'ha resa orfana di una figlia torna con le immagini diffuse in aula a inizio udienza. Le foto corredano il racconto di Vittorio Gatto. Il medico legale mostra l'osso ioide fratturato e le quattro ferite al collo della vittima. Nella principale una lama di 11 centimetri e mezzo è penetrata per 8 centimetri. Gatto parla dopo Alessandro Piccinini, titolare dell'agenzia di servizi per gli anziani per la quale Cecilia ha lavorato nell'ultimo mese di vita. «Una persona solare che si faceva voler bene». Poi, sono chiamati i procacciatori di contratti per forniture di energia con i quali lavorava Genco. Ricordano che il mattino dopo in ufficio «mise la musica alta e ballò». Quasi si fosse liberato di un peso. Avevano cercato di convincere l'imputato reduce da un patteggiamento di due anni per stalking a lasciare in pace Cecilia. La pena gli venne sospesa dietro la promessa di seguire un programma di riabilitazione. «Ma si fermò al primo dei quattro colloqui preliminari necessari prima dell'inizio del percorso» ricorda Alessio Testi, psicologo di Liberiamoci dalla violenza di Parma.
Altra testimone dell'accusa, una ragazza parmigiana a sua volta molestata dopo aver accettato di incontrare Genco conosciuto durante una delle sue vendite porta a porta. Anche la moglie albanese dell'imputato viene ascoltata. Ricorda di altre due ragazze, trovate in casa al ritorno dalle sue assenze: entrambe scappate. La seconda tornata in Moldavia dopo avere denunciato il marito.
Dalla maschera dell'imputato scendono le lacrime quando a testimoniare è chiamato Piero Pettenati. «Un'infanzia molto brutta, la sua, senza madre né padre - dice il nonno adottivo di Genco -. Noi abbiamo fatto il possibile». Le prime parole di scusa per Dina le esprime il 73enne: «Ci dispiace enormemente per lei. Sappiamo quello che sta provando». Della paura di stare solo dell'imputato parla Massimo Ghirardi, che dalla primavera del 2007 a fine agosto 2008 fu padre affidatario di Genco. «Provava un'angoscia palese e un attaccamento feroce alle proprie cose». La scomparsa di un figlio fece venir meno le energie necessarie per prendersi cura anche di questo ragazzo difficile. Genco finì in comunità a Cremona. «Una volta dovetti correre là: si era rotta la foto del mio figlio defunto che teneva sul comodino».
È come se la perizia l'invocasse lo stesso imputato. «Se fossi nato in un'altra famiglia non sarei diventato il mostro che sono» dice. All'ora e mezza di domande del pm risponde incerto, incespicando. Quando è poi il suo difensore a farlo parlare, sembra un altro. Che sia un giorno chiave nel processo è chiaro anche a lui, che si è presentato in aula con una serie di croci tau alle dita, oltre al solito rosario sul maglione: crocefisso baciato alla fine dell'udienza. Genco, che subito aveva ammesso di essere partito con il proposito di uccidere la donna che non ne voleva più sapere di lui, ora dichiara di aver pensato solo di lasciarla «perché era cambiata» e «perché una mamma non lascia un bambino solo». E di averla uccisa perché lei gli avrebbe proferito parole offensive. Dice di aver deciso di accompagnare Cecilia verso casa nel timore che «avendo bevuto, le capitasse qualcosa di brutto». Non poteva capitarle di peggio.
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