Tutta Parma
I nostri vecchi, specie in campagna, non è che avessero molto tempo per leggere. Chi era in grado di farlo (ricordiamo che l’analfabetismo, un tempo, era diffusissimo) difficilmente leggeva i giornali appannaggio dei ricchi, della borghesia e degli intellettuali. Ed, allora, non rimaneva che leggere e rileggere quel lunario o quell’almanacco che puntualmente, il 1° di gennaio, veniva appeso in cucina o al muro accanto al grosso camino in modo tale fosse ben visibile e facilmente consultabile. E, nel lunario di una volta, c’era di tutto e di più. Le caselle dei giorni non si limitavano solo a riportare la data ma, oltre la denominazione del santo giornaliero, si potevano avere indicazioni sulle lunazioni e, quindi, su quando era meglio arare, seminare, potare, imbottigliare, concimare, «fare» i capponi (delicato compito che spettava al «castradòr») ed anche prevedere il parto delle mucche. Una sorta di amico fedele che accompagnava la nostra gente dei campi tutto l’anno. In molte case non poteva certo mancare l’«Almanacco di Frate Indovino».
In quei fogli di carta patinata a colori vivacissimi c’era dentro di tutto, in modo particolare quella semplicità e quell’ingenuità che il frate cappuccino testimoniava dalle rubriche del suo lunario. Negli antichi lunari figuravano tappe particolari, contemplate nei vari mesi, dove la nostra gente si soffermava con maggiore attenzione in quanto indicavano santi protettori che la saggezza e la cultura popolare volevano a presidio e a tutela di qualcosa: tempo, malattie, bestiame, sagre, campi e feste. I santi di «casa nostra» non sono tantissimi, ma sono molto venerati non solo dalla Chiesa ma anche dalla gente in quanto patrimonio di antiche usanze dure a morire.
A parte i santi protettori di tanti paesi della provincia ai quali sono dedicate le varie sagre patronali, ripercorriamo, in ordine cronologico, la mappa di «sant pramzàn dal sas» ed anche «arjóz» più popolari iniziando dal protettore della nostra città: Sant' Ilario, festeggiato il 13 gennaio. La leggenda, com'è noto, narra che il santo vescovo francese, di passaggio da Parma con i calzari logori, fosse stato soccorso da un calzolaio parmigiano il quale gli rifece le scarpe senza voler alcun compenso.
Al mattino seguente, il generoso artigiano, rinvenne nella sua bottega un paio di calzari d'oro. Di qui la tradizione delle «scarpette dolci» in occasione della festa del santo patrono.
Altro santo popolare, festeggiato nelle nostre campagne il 17gennaio, era Sant'Antonio Abate, più comunemente conosciuto come «Sant'Antónni dal gozén» protettore degli animali, delle stalle e dei pollai. In città, dinnanzi alla chiesa a lui dedicata in strada Repubblica, anticamente, in occasione della ricorrenza del santo, transitavano gli armenti benedetti da due sacerdoti posizionati dietro ai due cancelli posti di fianco all'entrata della chiesa. Il 20 gennaio, Santi Sebastiano e Fabiano, corrispondeva alla «Fésta di rezdór».
A Mamiano elessero i due santi protettori dei «capi famiglia» in ricordo di una terribile pestilenza che colpì proprio le persone giovani e forti, cioè molti padri di famiglia. Nella notte che precedeva il 25 gennaio (Conversione di San Paolo), ma che le usanze popolari hanno battezzato molto più sbrigativamente «San Pàvol di siggn» («San Paolo dei segni»), le ragazze da marito, prima di andare a letto, riempivano una scodella d’acqua che veniva appoggiata sul davanzale della finestra. Il freddo della notte (non dimentichiamo che la ricorrenza di San Paolo precede di un soffio i «Giorni della Merla» che cadono il 29, 30, 31 gennaio considerati i più gelidi dell’anno) avrebbe provveduto a disegnare nell’acqua, che si trasformava in ghiaccio, degli strani arabeschi che avrebbero indicato il mestiere del futuro sposo.
Pochissime volevano scorgere un badile o una vanga in quanto il magico verdetto avrebbe voluto significare un matrimonio con un «paizàn», quindi, si prospettava alle ragazze una vita di lavoro e di fatiche. Il 2 febbraio si celerava la Candelora (la «Serióla») con la benedizione delle candele in tutte le chiese.
«Par la Serióla - recitavano i nostri vecchi - da l'inväron sèmma fóra» oppure « par la Serióla o ch'à néva, o ch'à pjóva o ch'à spónta la vióla». San Biagio, il 3 febbraio, era l'ultimo «marcànt da néva», infatti il proverbio così recita «San Bjäz al gh'à la néva sot' al näz». In chiesa i fedeli si facevano benedire la gola. San Giuseppe, il 19 marzo, era il tedoforo della primavera. «Dedlà da l'acua» impazzava la fiera a lui dedicata che, negli anni, si è svuotata di quel pathos popolare che l'aveva connotata tanto da ispirare Renzo Pezzani a scrivere struggenti versi «...Pòvra féra ‘d san Giuzép, primavéra di mé véc', at' si morta adäzi adäzi sénsa zbraj e sénsa scuäzi». Il 25 marzo, Annunciazione della Madonna, coincideva con la ricorrenza nel corso della quale si svolgeva in alcuni paesoni della pedemontana una fiera che coronava un tristissimo mercato dove poveri giovani (futuri «famìj da fagòt») venivano reclutati per mai contate ore di lavoro nei campi. In cambio di pesanti fatiche la paga era assai leggera: vitto (solitamente zuppa o polenta tutti santi giorni), un giaciglio di paglia nel fienile o nella stalla su cui dormire e, al termine della stagione, un sacco di farina ed un paio di scarpe.
Giovanetti ed in molti casi anche bambini, dunque, che si cibavano di zuppa e polenta e, per dormire, disponevano della «grèppia con un brancón äd fén. Un po’ famìj e un po’ Gezù Bambén» («Oc’ Luster» di Renzo Pezzani edizione Battei).
Il 25 aprile, ricorrenza di San Marco, per i contadini di ieri, era il tempo delle «rogazioni», ossia della benedizione dei campi. Puntualmente, la vigilia di San Marco, le donne, si recavano in città a comprare il seme dei cosiddetti «cavalär» per portarlo, all'indomani, in processione dentro una scatoletta di cartone con la speranza di propiziare l'aiuto del cielo sulla loro fatica. La scatoletta, dopo la processione, veniva alloggiata sotto la trapunta del letto per favorire la nascita dei preziosi bachi da seta. Il 30 aprile era la magica «Notte degli smaggi» durante la quale i giovani del paese architettavano burle e scherzi per dare il saluto alla dea Maja. Santa Rita, con le sue rose benedette, veniva festeggiata in tutte le chiese il 22 maggio.
Un altro santo molto venerato era Sant'Antonio da Padova che si festeggiava, tra un tripudio di gigli bianchi, il 13 giugno. Il santo «estivo» per eccellenza, per i parmigiani, è comunque San Giovanni. Infatti, nella notte che precede la sua festa (23 giugno), è più che mai diffusa , anche oggi, la tradizione della rugiada («rozäda»), dei tortelli di erbette e della raccolta delle noci, prima della mezzanotte, per fare il salutare «nocino». La notte del 10 agosto, San Lorenzo, «San Loréns dala gran calùra» era dedicata a scorgere le stelle cadenti. Il 9 Agosto, San Fermo, protettore dei bambini, veniva celebrato in modo solenne nella pieve romanica di Zibana di Palanzano. Il 16 agosto la gente dei campi invocava San Rocco che la proteggesse dalle epidemie di colera. Il 10 settembre, San Nicola, ad Agna, nel cornigliese, si distribuivano i panini benedetti. Il 21 settembre, San Matteo, i montanari delle vallate che gravitavano attorno al Monte Caio rendevano omaggio, sulla sommità del monte, al popolare santo. Il 29 settembre si festeggiava, invece, San Michele Arcangelo. Stava avanzando l’autunno: «Par San Michél pòmm e pér in-t-al carnér», «Par San Michél la rondanén’na l’a 'n torna miga in cél».
Il 25 ottobre i calzolai parmigiani festeggiavano i loro protettore: San Crispino. Magari, mangiando gatto e polenta essendo i «cibàch», secondo la tradizione, impenitenti cacciatori e divoratori di «lévri da còpp» (lepri da tetto): i gatti del quartiere. Il 28 ottobre, San Simone, era d’obbligo seminare l’aglio che andava raccolto dopo la «rozäda äd San Zvan» L'11 novembre la gente dei campi affrontava la solennità di San Martino che, per molti contadini, significava il passaggio, non sempre indolore, da un podere ad un altro.
Così la descrive il poeta Fausto Bertozzi: «la fumära, un brancón äd fén/ cuàtor scrani e ‘na cardénsa/ dò botillj, un scatlón ‘d sménsa/ e sul car dormì un putén». Il 25 novembre i nostri nonni ricordavano Santa Caterina «Santa Catarén’na il vachi ala cadén’na». L’inverno faceva sul serio e le bestie dovevano essere messe definitivamente nelle stalle dove, alla sera, si riuniva anche la gente per le veglie. Scortati dal freddo e da qualche robusto « cul äd néva» arrivavano i santi del Natale, i tanto temuti dai nostri vecchi «marcànt da néva» : Santa Bibiana (2 dicembre), Santa Barbara (4 dicembre), Santa Lucia (13 dicembre), Santo Stefano (26 dicembre) ed, infine, San Silvestro (31 dicembre), momento in cui il vecchio lunario, dalle pagine unte e bisunte, faceva spazio sul vecchio muro della cucina a quello dell’anno nuovo che, a sua volta, rinnovava alla gente le solite incognite, attese e speranze. L’illusoria danza della vita.
Lorenzo Sartorio
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