L'ex vice della Maxicono ora è a Macerata
Può capitarti di girare il mondo, di vivere esperienze entusiasmanti, di arricchirti attraverso l'incontro con persone e culture diverse. E magari di vincere, tanto. Ma quando torni nel luogo dove tutto è cominciato, stai pur certo che il cuore ti batterà sempre e inevitabilmente più forte. Vorrai quasi cristallizzarlo, quell'attimo.
Nel caso di Flavio Gulinelli, storico vice allenatore (tra il 1989 e il 1992) della grande Maxicono che dominava la scena nazionale e internazionale, quel luogo è il Palaraschi. Un impianto dove Gulinelli è tornato domenica scorsa, da avversario, con la sua Med Store Tunit Macerata, impegnata nella gara del campionato di A3 contro la Wimore. Non una partita come le altre, per il tecnico piemontese. «Per dare un'idea della percezione e della considerazione che, nel nostro ambiente, si ha del Palaraschi – rivela Gulinelli - vi dico solo che, durante la settimana, alcuni dei miei giocatori mi avevano chiesto di raccontare loro qualcosa di quell'impianto e degli anni alla Maxicono. Spiegarglielo non era semplice. Allora mi sono affidato a qualche immagine, ben impressa nella mia mente».
Si riferisce a una grande partita, forse?
«Non esattamente. Ho ripensato a quelle persone che vedevo dormire, avvolte nei sacchi a pelo, sui gradini d'ingresso del palazzetto: aspettavano la squadra, per l'allenamento di rifinitura prima della gara. Questa immagine si è fatta ancora più nitida quando, domenica, mi sono ritrovato negli uffici del Palaraschi, circondato dai poster e dalle foto di un periodo che ha segnato il mio approccio alla pallavolo professionistica. Il Palaraschi è un po' un luogo sacro. Come il Palapanini di Modena o lo stesso Fontescodella di Macerata, dove giochiamo le nostre partite casalinghe. Per gli amanti della pallavolo, e per i vecchi allenatori come me, direi che in questi posti manca solo l'acquasantiera dove farsi il segno della croce...».
Cosa le ha lasciato Parma?
«Moltissimo, dal punto di vista umano e professionale. Amicizie vere, che mi vanto di aver conservato, con giocatori e colleghi. Ma anche l'affetto sincero di tante altre persone, tifosi e non solo: alcuni di loro li ho rivisti con piacere. Sa, non tornavo a Parma da un po': ho vissuto emozioni forti».
Qual era il segreto della mitica Maxicono?
«Io non credo che esistano segreti, nello sport: in ciascuno dei suoi interpreti la Maxicono aveva di sicuro mentalità, fame, voglia di emergere e di andare oltre i propri limiti. Caratteristiche che quei giocatori conservano e coltivano ancora adesso, giorno dopo giorno, da allenatori o dirigenti. È una differenza sostanziale rispetto alle nuove generazioni. I tempi sono cambiati: i giocatori di oggi non hanno la stessa determinazione».
Ai tempi della Maxicono, che rapporto aveva con i suoi giocatori?
«Di quei ragazzi ero quasi coetaneo, potevo ritenermi a tutti gli effetti un fratello maggiore. C'era però rispetto dei ruoli e una straordinaria cultura del lavoro. Abbiamo vissuto una favola, una bellissima favola. E non è un caso che con quasi tutti loro sia rimasto un legame importante: anche se, presi dai nostri impegni, ci sentiamo solo per gli auguri in occasione delle feste, quando lo facciamo è sempre come se ci fossimo lasciati il giorno prima».
A Parma ha lavorato con due allenatori vincenti per definizione, Gian Paolo Montali e Bebeto. Cosa le hanno trasmesso, l'uno e l'altro?
«Due allenatori di altissimo profilo, ma ovviamente con visioni tecniche e caratteri differenti. Ho sempre cercato di attingere dal patrimonio di conoscenze e insegnamenti custodito dalle persone con le quali ho avuto il privilegio di collaborare. Con Montali, a un certo punto, le strade si sono separate, mentre con Bebeto ho vissuto a lungo in simbiosi, anche in Nazionale e per via dei miei trascorsi col Brasile, dove pure lui non era direttamente coinvolto».
Cosa ha rappresentato Bebeto per la pallavolo?
«Aveva una genialità assai fine: ha portato entusiasmo e fatto scoprire, ai giocatori, il piacere di lavorare col sorriso. Vedere le sue squadre era divertente per il pubblico, ma vi assicuro che lo era altrettanto per chi scendeva in campo. Pensi che con lui ci dilettavamo a tracciare quale sarebbe stato il futuro dei nostri giocatori: molti erano allenatori già allora».
E qualcuno di loro in effetti, da tecnico, si è fatto strada. Giani, ad esempio.
«Proprio di recente ho seguito un corso di aggiornamento tenuto da “Giangio”. Alla fine gli ho mandato un messaggio: mi sembrava di essere stato catapultato indietro nel tempo, alle lunghe chiacchierate che si facevano tra noi in palestra o in albergo».
Quanto è stato utile, per la sua carriera, il fatto di aver accumulato tante esperienze in panchina all'estero?
«Non ho mai stravolto le mie abitudini né quelle dell'ambiente che mi ha accolto. Mi sono immerso in quelle culture, con abnegazione e curiosità. Il continuo confronto stimola, ti rende vivo. Ed esprimersi nell'idioma originario di certi paesi, e non in una lingua comune come può essere l'inglese, non solo lo ritengo una significativa forma di rispetto ma anche l'elemento più appropriato per favorire la predisposizione al dialogo».
Parliamo della Nazionale italiana: è nata una nuova generazione di fenomeni?
«Non so se può essere definita tale, ma questi ragazzi stanno facendo benissimo, illuminati dalla sapiente guida di Fefè De Giorgi. Sono convinto che, a livello di risultati, non si fermeranno qui».
Lei ha praticamente iniziato la sua carriera a Parma e oggi allena Macerata, due piazze con tradizioni di spessore. Ci salutiamo con l'auspicio di ritrovarle, entrambe, ancora più in alto?
«Non poteva trovare una maniera migliore: speriamo proprio di sì».
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