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L'intervista

«Dubi» Dacic, talento sbocciato nel Basket Parma, si ritira: «Non ho rimpianti. La gioia più grande? Il coraggio delle mie scelte»

«Dubi» Dacic, talento sbocciato nel Basket Parma, si ritira: «Non ho rimpianti. La gioia più grande? Il coraggio delle mie scelte»

25 Gennaio 2023, 03:01

«Dubi» ha detto basta. A 37 anni Dubravka Dacic – un talento sbocciato nel Basket Parma (oltre 1.000 punti realizzati tra il 2002 e il 2007) – ha annunciato, con una commovente lettera, il suo addio alla pallacanestro giocata. Due decenni vissuti intensamente sul parquet, per la cestista croata naturalizzata italiana. Che, dopo gli esordi in gialloblù, ha indossato le maglie di Dinamo Mosca, Ros Casares Valencia (con un fantastico triplete), Besiktas, Cras Taranto, fino alle ultime esperienze in Svezia (svolgendo parallelamente la professione di odontotecnico e, in campo, finendo per tre anni fra le top 5 delle classifiche individuali) e a Capri. Una carriera impreziosita poi da 42 gettoni di presenza collezionati con la Nazionale azzurra.

Il saluto alla palla a spicchi ha voluto darlo a modo suo, Dacic. Con pensieri profondi, che si discostano totalmente da quelli classici «di circostanza», unendo basket, vita e sentimenti. Lei che in tempi recenti ha pubblicato un libro, «Memorie di un divenire», perché «scrivere per me è un bisogno viscerale» spiega il centro. «E nei libri ci sono le basi per poter comprendere quello che troviamo nel mondo, per saperlo affrontare. Scrivere è un modo per entrare dentro le cose, discernerle, scavarle e trovare una strada. Sono stata lusingata del fatto che molti siano riusciti a leggere fra le righe della mia lettera di addio, capendo l’universo che c’era dietro».

Dubi, lei ha scritto che con il basket non è stato un colpo di fulmine: l'ha definito invece un'opportunità. Perché?

«Prima che mi fosse proposta come una possibilità, appunto, non ero mai entrata in un campo di pallacanestro. Non era insomma il classico “dormivo con la palla fin da bambina”... Ho rafforzato l'essere me stessa, per quanto sia un esercizio difficoltoso, imparando a scegliermi: nell’odio ho rafforzato l’amore, nel dolore ho imparato che se lo avessi usato allo stesso modo verso gli altri sarebbe stato un dolore sprecato; nella felicità ho appreso come la stessa vada vissuta appieno quando si manifesta nella sua brevità. Non mi sono mai accontentata e ho scoperto che il vaso della conoscenza va riempito sì, ma anche espanso in modo da accoglierne di nuova».

La gioia più grande della sua carriera?

«Non credo di poterla trovare in qualche trofeo o successo. Semmai combacia con il coraggio delle mie scelte. Il coraggio di raggiungere vette importanti a casa, in Italia, per poi a 21 anni ripartire da zero, all’estero, dove bisogna guadagnarsi ogni centimetro di campo e secondo di partita, senza garanzie. Il coraggio di vivere non solo il basket, ma i luoghi, i paesi e le culture che ho avuto il privilegio di conoscere. Sono sempre stata dell’opinione che, per prima cosa, siamo persone e solo dopo siamo quello che facciamo. Questo vale specialmente nello sport, che dovrebbe essere il distributore mondiale per antonomasia di valori e ideali».

In negativo, nella sua carriera, hanno inciso di più un trofeo mancato o rapporti personali che in qualche modo l'hanno ferita?

«I trofei vanno e vengono, gli obiettivi cambiano e si evolvono, mentre i rapporti umani restano. C'è una frase, di Maya Angelou, che porto sempre con me: “Ho imparato che le persone possono dimenticare ciò che hai detto, le persone possono dimenticare ciò che hai fatto, ma le persone non dimenticheranno mai come le hai fatte sentire”. Credo nei rapporti umani. È evidente che non si possa piacere a tutti e che né tutto possa piacerci, ma se ci muoviamo verso l’altro privi dell'intento di far del bene perdiamo la nostra umanità. E anche l'occasione di essere persone migliori. Comprendo le debolezze umane ma non posso giustificare chi sceglie di far del male, perché si tratta di una scelta appunto: quelle debolezze, possiamo non ascoltarle».

Se dico Parma, qual è la prima parola che le viene in mente?

«Crescita. Essere adolescenti non è mai semplice, tanto più se quel periodo lo vivi con responsabilità che avverti come troppo grandi. Nessuno “vede”, oltre quel talento: quando vai in campo tutti si aspettano che tu faccia il tuo dovere, ma nessuno si avvicina e ti chiede come stai, se riesci a gestire un’ansia massacrante che ti viene riversata addosso dalle continue e molteplici aspettative. C’è senz'altro del buono nella disciplina che lo sport può donare, ma ci sono anche estremi che non vanno per nessuna ragione sottovalutati né oltrepassati. Esistono frontiere, nella mente, che portano a luoghi dai quali è poi difficile tornare. E non basta una pacca sulla spalla a cancellarne i contorni. Di Parma ricordo con affetto Maurizio Scanzani, il mio primo allenatore, perché certe lezioni le capisci solo dopo, Come ci insegna Kierkegaard, la vita va vissuta in avanti ma può essere compresa solo all’indietro. E poi Miodrag Veskovic, che con la sua folle ironia tirava fuori tutto il mio potenziale, senza sottovalutare la mia giovane età e le mie insicurezze».

Gran bella carriera, la sua: ha vinto molto, ma c'è spazio anche per qualche rimpianto?

«Lo scudetto, la Copa de la Reina e la Supercoppa spagnola a Valencia, il titolo di miglior giocatrice italiana, i premi nelle nazionali giovanili sono sempre ben presenti, in me. Per i rimpianti, invece, proprio non ho tempo: gli errori si fanno, s'impara la lezione e si guarda avanti. Accetto la persona che sono, con i miei sbagli e le mie fragilità. Noi siamo le nostre scelte, ma valiamo più dei nostri errori».

Che cosa spera di aver lasciato con la sua biografia?

«Intanto mi auguro che questo libro, con il quale ho coronato il sogno di una vita, non rimanga l'unico. Chi scrive spera sempre che anche solo una frase possa rappresentare, per chi legge, una chiave di volta o un propulsore verso una versione di se stesso che non conoscevamo ma della quale aveva bisogno. Spero che il libro sottolinei l’importanza di costruire basi solide a livello umano, ben prima di sviluppare un talento o una capacità. E spero si possano scorgere, tra le pagine, il coraggio e l’amore».

La pallacanestro farà ancora parte della sua vita?

«Non ho mai considerato la possibilità di rimanere legata al mondo della pallacanestro, nonostante mi vengano riconosciute doti che farebbero bene a questo movimento. Non nego che potrei valutarle, semmai arrivassero proposte interessanti».

Vittorio Rotolo

© Riproduzione riservata

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