Intervista
di Filiberto Molossi
Rimpianti? Tanti: di non avere fatto i film che volevo, di avere picchiato dei registi di merda, di non avere avuto una moglie sola, di avere sbagliato a lungo con i miei figli... Però vedi, l'estate scorsa, con un caldo pazzesco, un sole così e 39 gradi all'ombra, alla mia età giravo ancora un film: andavo su e giù dappertutto e avevo una troupe di ragazzi che mi seguiva boccheggiando. Mi hanno chiesto come facevo. Facile: il segreto è che io mi diverto ancora. Al contrario di loro. La differenza tra me e i giovani è tutta lì».
E' il protagonista di «Prima delle rivoluzione», il pittore delle poltrone rosse, il regista di film dati per morti e poi risorti al rango di cult. Oggi è festa grande: compie 80 anni uno che ne ha viste tante. «Pure troppe, forse: mi sento molto vecchio. L'altra notte ho sognato che stavo morendo: ma c'era il cielo, tramonti, nuvole. Non era male: pareva di stare al cinema».
Ha barba e bastone da patriarca, l'ironia burbera di chi non prende ordini da nessuno (vita compresa) e poco o niente da perdere: fresco di civica benemerenza per Sant'Ilario, Francesco Barilli batte l'ottantesimo ciak di una vita sempre diversa, di un film favoloso. Lui, nato nei giorni bui del '43, passato «da Hitler ai Rolling Stones», cresciuto a dipinti e film in una famiglia geniale e ingombrante, mina vagante e anticonformista d'antan di cinema, spot (tra gli altri Fiat, Sip, Bauli e «quelli della Tanara, con le canzoni dei Matia Bazar»), documentari (12 Tv Parma ne propone otto tra i più significativi, tutti i venerdì sera) e serie tv: un unicum che non assomiglia a nessuno e che oggi si prepara a festeggiare con gli amici alla Fulgor Rondine, regno di sardi generosi convertiti agli anolini in brodo, «il posto dove ho scritto il mio ultimo film, “Il paese del melodramma”».
A proposito, lo hai finito?
«Mi mancano due scene, una in Duomo, davanti all'Antelami, e l'altra al Battibecco: ma è già montato. Se sono soddisfatto? Sì, ne vado fiero: alla mia età non era scontato... Però io l'ho detto a tutti prima di partire: nessuno deve rompermi le palle, se lo faccio, faccio quello che voglio. E così è stato. C'è una Parma bellissima, un Regio mai visto: insomma, non è male... E' un film grosso per la Avila Entertainment (fondata da Luca Magri, Antonio Amoretti e Pietro Corradi, ndr), è stato impegnativo per tutti».
E' la storia di un cantante lirico alla deriva, interpretato da Luca Magri, e del suo incontro con la Morte, ossia il tuo vecchio amico Luc Merenda...
«Luc mi chiama tutti i giorni, l'ho rimesso in moto: e con lui me stesso. Ho partecipato anche al documentario sulla sua vita, abbiamo fatto un'intervista doppia: è stato divertente. Siamo amici da sempre, con lui ho girato “Pensione paura” nel '77: i produttori non lo volevano. Era perfetto invece. E poi alla lunga è diventato un cult clamoroso: figurati che ne hanno scritto anche su Variety definendolo un capolavoro».
Come è successo?
«E che ne so? Di colpo tutti si ricordano di me, mi invitano a tutti i festival. Una volta, durante un incontro con la stampa, ho detto che il film non mi piace: un giornalista si è alzato in piedi scandalizzato: “Non si permetta di dire così, lei non si rende conto di cosa ha fatto...”. In America lo hanno restaurato e hanno pure rifatto la copertina del dvd. Ha avuto un destino simile anche “Il profumo della signora in nero”: prima dimenticato e poi dopo anni diventato un cult».
Ma tu ti senti più regista, attore o pittore?
«Io sono un pittore, nasco pittore e volevo fare il pittore: ma amo il cinema da pazzi. L'attore però l'ho fatto per caso: già da ragazzo mi piaceva il cinema, ma da spettatore. Poi ho fatto l'assistente volontario a Pietrangeli ne «La parmigiana» e lui al Circolo di lettura mi notò: “Vieni un po' qua tu...”. Così mi fece ballare e dire quella battuta diventata famosa: “A noi di Montechiarugolo, sa com'è, ci piace la donna fatta”. Poi arriva Bernardo e mi fa fare “Prima della rivoluzione”, ma attore, no, non mi sono mai sentito. Bolognini mi dava del rompiscatole: mi aveva visto in «Sabato italiano» e mi ha fatto interpretare Ricordi; Monicelli invece mi diede un buon consiglio: “Se non hai fatto la scuola e non hai imparato recitare - diceva - fai te stesso e non sbaglierai mai”. Aveva ragione».
E la carriera da regista?
«Anche quella nata per caso. Un giorno al mare un tizio della Rai mi fa: “Sei un regista?”. Gli ho detto di sì anche se non era vero: ho fatto più di cento servizi... l'inaugurazione della Terza Rete, sono andato in Congo per l'Agip, di tutto guarda...».
Non hai un carattere facile: è stato un limite?
«Nel cinema devi sempre dire “hai ragione” e poi fare come ti pare: io invece ho detto troppi no. Mi sono pentito di volere avere ragione a tutti i costi. Ho vissuto da testardo, tipico carattere barilliano. Ma i Barilli mi hanno insegnato a fare cose belle: e a crederci. Mio nonno Latino una volta ha perso il treno: la ronda fascista l'ha trovato in giro durante il coprifuoco. Lo hanno arrestato: al posto della foto sul documento di identità aveva fatto un acquerello, un autoritratto... Cioè, per dire. Nella follia di questa famiglia io mi considero abbastanza normale».
Hai nostalgia di qualcosa?
«Del mondo in cui c'erano meno soldi. E di certe mattine in cui andavo al cinema Lux con mio padre o magari ad ascoltare un'orchestra jazz che arrivava da Roma...».
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