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Maschere e dolcissime chiacchiere: il Carnevale di una volta

Maschere e dolcissime chiacchiere: il Carnevale di una volta

di Lorenzo Sartorio

13 Febbraio 2023, 03:01

Anche le maschere esigono la quota rosa. Infatti, tra le più popolari maschere italiane, molte, sono di sesso femminile. Ed allora, a fianco della maschera parmigiana per eccellenza, «al Dsevod», impersonato dal bravo ed elegante Maurizio Trapelli, per quale motivo non potrebbe esserci una maschera femminile che fa parte della nostra più antica tradizione? L’idea fu lanciata alcuni anni fa dall’indimenticato Franco Ferrari, regista e attore dialettale, personaggio molto noto nell’ambito del teatro vernacolo parmigiano per aver diretto la compagnia dialettale «L’Emiliamagnanini». Ferrari, che fece della parmigianità e delle tradizioni popolari della nostra città motivo di ricerca e di studio, lanciò l’idea di rispolverare, togliendola dall’oblio del tempo, la figura della «Fodriga».

La «Fodriga da Panocia», antico almanacco nato insieme ad un altro zibaldone, «Il Caporal Quattor Cazzabal», dal 1725 alla seconda metà dell’ ottocento, tenne banco mantenendo alto il blasone di un dialetto molto diverso dall’attuale che i puristi definirono arioso e plebeo in quanto contemplava termini con accentazioni e pronunce diverse da quelle cittadine e, soprattutto, non sciacquate nelle acque «d’la Pärma». Ma la «Fodriga» fu solo un almanacco? Sembrerebbe proprio di no. Vincenzo Zileri, uno dei padri del teatro dialettale parmigiano, definì la «Fodriga» «fiera e industriosa rezdora o ostessa del contado apprezzata per la cucina povera, ma succulenta anche dalle soldataglie che si riversavano nel contado della città ducale».

Femmina ma con gli attributi (quindi è facile intuire che la «Fodriga» fosse stata una donna tosta e energica) fu nota anche per avere architettato particolari situazioni boccaccesche nei confronti dei suddetti mercenari al fine di cavarne la dovuta mercede e lasciarli poi con tanto di naso e soprattutto con il «sacòssi vòdi».

Una vera antesignana del teatro comico dialettale, le cui invenzioni furono vere e proprie “pochades”. Una popolana del contado, dunque, che, facendo di necessità virtù, sbarcava il lunario in tempi non proprio di abbondanza. Una sorta di Mirandolina, la locandiera di Goldoni, però tutta nostrana la cui figura, secondo Ferrari, sarebbe stato bene rispolverare ed abbinare a quella del più popolare «Dsevod». «Vriv andär fina a Panòcia? Al Pilastor bvi 'na bòcia, po’ volté con poca fadiga l’é al sit ädla Fodriga». Così Domenico Galaverna, ideatore della maschera «Batistén Panäda», invitava i parmigiani, alla fine dell’Ottocento, inaugurato il tramway a vapore Parma- Langhirano, a fare una visita turistica a Panocchia. E poi, la riscoperta della «Fodriga», ostessa di grande talento, servirebbe a rilanciare l’antica cucina popolare parmigiana, quella dei cibi cucinati lentamente nelle pentole di terracotta, quelli che profumavano di storia e vecchie usanze come quelle appunto di Carnevale, il tempo delle maschere.

«Viva viva Carnväl/la poiana insimma al päl/la ciama carnväl./Carnväl al vol mia gnir/e la poiana la vol morir!/Lasa ch’la mora/agh’ farema ‘na ca’ nova/un piatt äd polenta/un piatt äd confètt/sera l’ùss e andem’ma a lét». Con questa simpatica filastrocca, in dialetto arioso, le cui origini si perdono nella notte dei tempi, anticamente, nella pedemontana parmense, allegre brigate vocianti e schiamazzanti, l’ultimo giorno di Carnevale, si producevano in rocamboleschi girotondi attorno al falò o al «pajòn» dove veniva bruciato il Carnevale, quasi si trattasse di un eretico o di una strega al tempo dell’Inquisizione.

La nostra gente dei campi, con l’intento di liberarsi dal male commesso durante l’anno e con il desiderio di purificare il proprio spirito attraverso il fuoco, tradizionalmente, proponeva questo rito dalle radici antichissime, addirittura d’origine celtica, attraverso il quale intendeva propiziare il risveglio della primavera, l’abbondanza di fiori e frutti e quindi l’uccisione, con il fuoco, dell’inverno, delle tenebre e della brutta stagione.

Proseguendo la tradizione della notte dell’ultimo dell’anno, dell'Epifania («nòta äd fazagna») e di «Sant'Antonni dal gozén», i nostri vecchi, con i falò, intendevano, nel loro inconscio, guidare il sole giovinetto nel suo lungo cammino solstiziale che, il 23 giugno, lo avrebbe visto adulto ed al massimo del suo splendore dopo avere sconfitto nettamente le tenebre invernali. Secondo le usanze popolari, il significato esoterico del falò si tramutava in qualcosa di ancor più misterioso. Infatti, «bruzär al Carnväl», significava allontanare il malocchio, le stregature, mentre sotto l’aspetto più strettamente religioso, significava chiudere il capitolo dei divertimenti con la consapevolezza di entrare nel periodo quaresimale.

Comunque la preparazione del falò, come d’altra parte l’albero di Natale o il presepe, rappresentava un vero e proprio rito. Innanzitutto veniva adocchiata una delle piante più lunghe e dritte che doveva essere immolata per fornire la lunga pertica sulla quale cominciare ad accatastare il materiale combustibile.

I preparativi iniziavano solitamente a metà gennaio per dare modo alla gente di accatastare attorno alla pertica più roba possibile: legna, fascine, vincigli, paglia, fieno, tarabaccole varie, seggiole sgangherate, panche, assi. Giorno dopo giorno, con il concorso della gente del paese o della borgata, il falò acquistava consistenza, sia in larghezza che in altezza, in attesa della fatidica «notte dei falò» particolarmente suggestiva per il fatto che, nelle nostre campagne e nelle nostre colline, fiamme baluginanti si potevano scorgere qua e là quasi si trattasse di accampamenti di pastori o di guerrieri.

A dare il via ai roghi, sempre nella notte dell’ultimo giorno di Carnevale, era il suono sordo (una sorta di muggito) della «lumäga», una sorta di grossa conchiglia, il cui suono fendeva il silenzio notturno riecheggiando da valle a valle, da borgata a borgata, da paese a paese. Ed allora come per magia, i falò, quasi sbucando dalla terra, venivano attizzati e si andava a gara a che le fiamme si alzassero maggiormente verso il cielo quasi a lambirlo. La legna, intanto, bruciava con un crepitio sempre più incalzante e le fiamme in poco tempo inghiottivano anche la «Poiana» e suo marito «Carnevale».

Lui, attore principale dell’agreste dramma, nei panni di un fantoccio goffo e vestito di stracci. Mentre lei, la vecchiaccia, era rappresentata con il naso adunco, i capelli stopposi e arruffati, il volto appuntito fatto di carta di giornale ed il corpo di paglia rivestita di stracci neri. Un addio senza rimpianti all’inverno che ormai stava languendo sul fuoco come i due sventurati coniugi ed un benvenuto alla primavera che, timidamente, avanzava vestendo i campi di tenere asprelle e i fossati di viole e di primule. Tempo fa giganteschi falò venivano issati a Felino, battezzati con il nome di «Russia» e «Mosca», altri ancora venivano allestiti a Sala Baganza ed in quasi tutti i centri della pedemontana da Bannone, Vigatto, Panocchia, Carignano, Langhirano.

Una volta arso, del «pajòn», non rimanevano che le ceneri che, in talune località della provincia, la gente spargeva sui campi con l’intento di allontanare insetti e parassiti dannosi al raccolto. Dal colore della cenere i nostri vecchi traevano pronostici per il futuro: se la cenere («sènndra») fosse stata chiara, era auspicio di serenità e benessere, in caso contrario, se fosse stata scura, era un pessimo presagio. Così dicasi per quanto concerne le fiamme del falò e il vento della notte: se le lingue di fuoco erano vive, chiare e lineari era di buon augurio per tutto l’anno, se invece erano scompaginate dalla tramontana, allora, erano guai seri per la stagione.

Per quanto riguarda la campagna ed i contadini il Carnevale suggeriva alcuni proverbi quali: «sa piova par Carnväl vena un bon melgonär» (se piove per Carnevale il mais cresce rigoglioso) oppure «chi vol un bel ajär ch’ al la pianta par Carnväl» (chi vuole aglio sano, lo pianti per Carnevale) come a dire che granturco e aglio potevano, proprio per Carnevale, ricevere un loro prolifico viatico.

Carnevale, oltre che maschere, veglioni e balli, significava anche dolci: chiacchiere («al ciac’ri»), i «canif» e i tortelli dolci con ripieni vari di marmellata «äd brùggni» o amaretti.

Dolci che facevano da staffetta al popolarissimo «bosilàn» (ciambella) che impreziosiva tutte le tavole con l’avvento della primavera e che i nostri vecchi «pociävon in t' al vén dóls».

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