NARRATIVA
Che deliziosa sorpresa il breve romanzo di Sebastiano Martini (Parma 1978), Il mare delle illusioni. Che naviga con eleganza non priva di pathos fra il limpido stile e la proverbialità di Rohmer (La speranza non va mai abbandonata: è il motto implicito con chiarezza nel finale) e l’aura della malinconica, forse inutile attesa di una donna che non arriva, e magari non arriverà mai o porterà cattive notizie. Tutta dostoevskiana (cfr. Le notti bianche). Senonché, qui oltre alle notti si aggiungono i giorni bianchi di un uomo solo. Anzi, per sua stessa decisione autorecluso, benché in un albergo di lusso quale il Grand Hotel Principe di Piemonte di Viareggio (come non ricordare due celebri personaggi che di un hotel avevano fatto la loro casa come Glenn Gould e Raymond Chandler?). Bene, il protagonista, Gregorio Boni, è il ricco comproprietario, nel modenese, di una fabbrica di piastrelle, governata da un saggio fratello maggiore, di nove anni più grande. L’esistenza gli si è stortata fin da piccolo: a cinque anni ha perso la mano sinistra, stritolata da una macchina da taglio. Mai ha voluto sostituirla con una mano finta: dapprima, alle elementari e alle medie, tormentato dall’«ingenua malvagità» dei compagni di scuola, poi acquistata maggior fiducia in sé attraverso lo sport, nel nuoto. Piccole e futili vicende amorose nella gioventù (alle ragazze fa tenerezza, ma poi lo mollano), infine una storia importante, durata a lungo, con Chiara, assieme a begli anni di mostre, teatri, viaggi: insomma, la scoperta del mondo alternata al comando delle “relazioni sociali” nell’azienda di famiglia. Finché la ragazza, che lavora in una multinazionale, non lo lascia per mettersi col suo capo. Un classico. A Gregorio non restano altro che qualche amico, poi via via perso nel tempo, i libri (legge, legge parecchio) e il lavoro, che finisce con inghiottirlo.
Giungono i suoi 46 anni: Gregorio è appunto un uomo solo. È proprio il lavoro che lo porta d’estate a un convegno al Grand Hotel Principe di Piemonte di Viareggio, dove occupa una suite matrimoniale. Il convegno lo annoia, parole inutili, Gregorio divaga con la mente, cerca di eludere l’impegno, se ne va in giro, affascinato dalle palme che gli evocano paesi esotici. Sogni. Ma non è un sogno il momento in cui, dopo aver prolungato il soggiorno di 15 giorni, spiega, al momento di saldare il conto, di voler restare ancora. E al concierge che gli chiede per quanto, dichiara che non sa, per ora a tempo indeterminato.
Un cliente così è una manna: affare fatto, e il direttore gli fa pure un grosso sconto, compiaciuto: «L’ospitalità è la nostra missione». Non è peraltro il denaro che importa a Gregorio: c’è qualcosa che lo rode, forse aspetta qualcuno che non arriva, forse è preda di quella che con un bel verso il poeta Andrea Zanzotto definiva: «atonia vita evitata» (13 settembre 1959 (Variante)). Passano i giorni, i mesi: ormai Gregorio fa parte dell’albergo, come il concierge, i facchini, i camerieri, l’arredo, ed è soprattutto col personale umile che si confronta. È un uomo buono, tormentato da un assillo che nessuno conosce. Solo una persona non riesce a decifrare. Un tipo che tutti i mercoledì si siede sui divani della sala d’attesa a leggere. Decide di avvicinarlo: si tratta del proprietario dell’albergo e di una catena di grand hotel di prestigio: Valerio Pepe, uno che si è fatto da sé e che visita giorno per giorno, ogni settimana, le sue proprietà. Fanno amicizia: l’altro gli insegna il backgammon, gli parla, lo distrae. L’atonia non esclude in Gregorio l’attenzione: è singolare la cura con cui attraverso i suoi occhi sfilano i vestiti delle persone, i «colori impossibili», le taglie sbagliate, le borsette scucite, le cravatte con nodi troppo grandi, ma è tuttavia compulsività più che vero interesse.
Perché proprio Viareggio, gli chiede un giorno Pepe, quando ci sono posti di mare ancor più belli? Non sa, prende il pretesto delle palme, poi esce la confessione: l’estate prima, terminato il convegno e uscito in cerca di un posto per cenare, ha incontrato in uno stabilimento della spiaggia una donna. Una bella quarantenne che balla tutta sola, le gambe nude, «un vestito corto troppo leggero per la brezza notturna». Si guardano, lei si accosta al suo tavolo, familiarizzano. È sous-chef stellato in un ristorante famoso di cui non gli fa il nome. Passeggiano sulla spiaggia, scherzano, finisce con un lungo bacio. Anna gli nega il telefono ma promette che l’indomani verrà a trovarlo al Grand Hotel, alle 12,30. La aspetta, non arriva. La aspetta i giorni successivi, la aspetta un anno intero, la cerca invano, prima di fare le valigie, il giorno di un grande incendio sui boschi sopra Viareggio. Parte sconfitto.
Piccolo gioiello, costruito in flashback, il romanzo ha una grazia sommessa che incanta, e non comune finezza di scavo psicologico. «Nessuno forse dovrebbe rimanere troppo a lungo da solo», pensa Gregorio. E se sono veri i versi dell’immenso Giorgio Caproni sull’uomo che di notte, solo, spinge il cancello e – «solo – rientra nei suoi sospiri…», è anche vero che l’ultima pagina del romanzo ci riserverà un confortante ribaltamento di scena...
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