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C'è chi guarda il Gran Premio di Formula 1 alla domenica e pensa di sapere tutto sul «Circus», sui piloti e sulle scelte strategiche condotte nel corso della gara. E poi c'è chi, di quelle scelte, ha la responsabilità all'interno di una scuderia: ingegneri progettisti e meccanici che, tra Gran Premi e test, l'aria della pista la respirano più di 200 giorni all'anno. «Dall'esterno non si ha una percezione esatta della complessa organizzazione strutturale che c'è alle spalle delle monoposto» la doverosa premessa di Mattia Binotto, fino a qualche mese fa team principal della Ferrari e ospite, mercoledì sera, della conviviale del Panathlon Parma. Con lui anche Giampaolo Dallara e l'attuale direttore tecnico della casa automobilistica di Varano Melegari Aldo Costa, accolti dal presidente del Panathlon Artemio Carra negli spazi dello Sporting Club Parma. «In Ferrari – chiarisce Binotto – lavorano 1.500 persone: 100 viaggiano, ma le altre 1.400 pensano a quella macchina, profondendo continuamente energie per sviluppare e migliorare un prodotto che deve essere sano, robusto, affidabile. Loro rappresentano il 95% dell'organizzazione della struttura. E sono quelli che contano di più».
Trascorsi comuni
Binotto e Costa si conoscono da una vita. Il primo fece il suo ingresso nella scuderia di Maranello nel 1995, il secondo l'anno dopo. «Quando arrivai io a Maranello, eravamo in 600: i piloti si chiamavano Jean Alesi e Gerhard Berger» ricorda Binotto. «La Ferrari non vinceva da tempo e avrebbe dovuto aspettare ancora un po' per mettere finalmente le mani sul titolo costruttori, arrivato nel 1999». Nel team Binotto - che definisce «meravigliosi» i suoi anni a Maranello - era un ingegnere motorista, mentre Costa si occupava dei telai. Lui, parmigiano, nel mondo dell'automobilismo era stato introdotto proprio da Dallara. «Aldo, giovanissimo, venne a trovarmi per chiedermi qualche consiglio» racconta il fondatore della casa automobilistica di Varano. «Parlai con l'ingegner Lombardi della Lancia: lo assunsero e, da lì, spiccò il volo. Qualche tempo dopo, Lombardi mi chiese una mano per convincere Costa a rimanere con lui. Chiamai Aldo: con tutta sincerità gli dissi che avrebbe fatto bene a lasciare quel posto e ad accettare la proposta che gli era arrivata...». «In Minardi – riprende Costa - eravamo in 33: l'ufficio calcoli ero praticamente io. Si lavorava senza apparecchiature sofisticate. Avevo una sfrenata ambizione di vittoria, che chiaramente non potevo coltivare in un piccolo team, dove mancavano mezzi e investimenti». Alla Ferrari era un mondo diverso. «L'attività di progettazione del telaio veniva sviluppata in Inghilterra da John Barnard, un vero innovatore. Lui non si spostava da quel Paese ragion per cui, per ben due volte, la Ferrari dovette smantellare il reparto telai e trasferirlo a casa sua». Di quella Ferrari, Ross Brawn era il sublime direttore d'orchestra. «Aveva un notevole senso di protezione del gruppo» lo descrive Costa. «Faceva in modo che gli ingegneri non avessero paura di sbagliare: non veniva mai nemmeno lontanamente sfiorato dall'idea di colpevolizzare qualcuno. Nei briefing, Brawn partiva sempre ricapitolando i problemi riscontrati dalla vettura durante l'ultimo Gran Premio. Era una lista scritta a mano, che partiva sempre dagli errori minimi: Brawn asseriva che sono i dettagli a fare la differenza».
Schumi, l'immenso
La Ferrari che vinse il campionato costruttori nel 1999 non festeggiava da 21 anni. L'anno dopo arrivò anche il titolo piloti, con il primo trionfo sulla «Rossa» di Michael Schumacher. E solo a sentirlo pronunciare, quel nome, corre subito un brivido sulla schiena. Un brivido che sa di emozione. Perché Schumi era semplicemente unico. «Che dire di Michael» sospira Binotto. «Un pilota straordinario: non soltanto per quello che ha vinto, ma per il suo carisma, la sua leadership, per quella mentalità vincente di cui abbiamo cercato di fare sempre tesoro, anche nelle esperienze successive. Quando lo incontrai la prima volta – racconta – ero un giovane neolaureato, uno stagista. Capii subito quanto grande fosse, Schumacher». E svela un aneddoto. «Noi eravamo abituati al pilota che, durante i test, si presentava dieci minuti prima del semaforo verde. Michael fece il primo giorno a Fiorano. Poi andammo all'Estoril: la partenza era fissata alle 9. Arrivammo alle 8,30 e Schumacher era già lì: fece un gesto eloquente, toccandosi l'orologio a sottolineare quanto fossimo in ritardo. Per lui alle 8 ci si riuniva, alle 9 dovevamo essere alla massima efficienza».
Il dualismo fra i piloti
Non esiste pilota al mondo che si accontenti di recitare un ruolo di comprimario rispetto al compagno di scuderia. Le gerarchie si stabiliscono in maniera naturale. «Alla Ferrari, pur avendo in squadra Schumacher, sia Irvine che Barrichello non partivano mai con la prospettiva di essere secondi: volevano vincere» annota Costa. «Il brasiliano lo diceva chiaramente, ad inizio stagione. Poi, dopo tre gare, si arrendeva all'evidenza dei fatti che sancivano lo strapotere di Michael».
Le direttive si chiamano in gergo «codici di condotta». «E definiscono persino chi esce per primo al venerdì. Nel week end successivo, ovviamente, l'ordine viene invertito» afferma Costa. Che, alla Mercedes, dovette gestire l'accesa rivalità tra Lewis Hamilton e Nico Rosberg, con quest'ultimo capace di conquistare il titolo iridato nel 2016, dopo un lungo testa a testa con il compagno. «Avevamo vinto il Mondiale costruttori ed eravamo ormai certi di fare lo stesso con quello piloti. Tutto tranquillo? Macché: furono le gare più tese e difficili che io ricordi, in assoluto. Meccanici e ingegneri si scervellavano per non concedere il minimo vantaggio, all'uno o all'altro». «Quella Mercedes poteva mettere i due piloti sullo stesso piano, perché era un secondo più veloce della altre» interviene Binotto. Ci si chiede, a quel punto, se conti effettivamente di più la macchina o il pilota. «Per vincere occorre sempre la macchina migliore» puntualizza Binotto. «Ma il pilota fa la differenza per gli ultimi due decimi in pista, per il talento, per la sua capacità di guida e di trascinare la squadra, spingendola a migliorarsi».
Il futuro della Formula 1
Per Binotto, «la Formula 1 continuerà ad essere una eccellente piattaforma di innovazione, contribuendo allo sviluppo delle tecnologie utili per il settore dell'automotive: si andrà verso motori sempre più ibridi, con combustibili rinnovabili». Alzare l'asticella dello spettacolo, rendendo la contesa ancora più avvincente, significa attrarre un pubblico nuovo e aumentare i ricavi. «A beneficio dello spettacolo è il concetto di balance of performance, che nelle gare di auto sportive garantisce il perfetto equilibrio delle prestazioni: tutte le vetture sono uguali per peso, curva di potenza, dimensioni geometriche» osserva Costa. «Anche in Formula 1 si sta cercando di assottigliare le distanze tra i team».
Guardando al futuro delle macchine da corsa, l'ingegner Dallara rimarca «la necessità di inquinare meno». «Ma questo è un discorso generale, ampio, che non riguarda solo le automobili. Le gare di vetture elettriche? Se un domani si riuscisse a far sì che queste auto producano anche un suono piacevole, vederle in gara potrà risultare esaltante e divertente».
I progetti firmati Dallara
Dallara sempre più protagonista nel mondo delle corse Endurance. È già così, adesso. E lo sarà ancora. «In Dallara ho completamente resettato il mio stile di gestione» spiega Costa. «Dieci Formule al mondo, comprese le due autonome, sono Dallara. Esistono vetture che non nascono con il nome della nostra casa automobilistica, ma che vengono realizzate interamente da noi, come Cadillac e Bmw. L'evoluzione è continua».
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