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Parma di una volta

Mulini e mugnai: così il grano diventava farina

Mulini e mugnai: così il grano diventava farina

di Lorenzo Sartorio

27 Febbraio 2023, 03:01

Il mulino è sempre stato un luogo magico, fascinoso ed anche misterioso. In quei locali incipriati di farina e di lavoro, da secoli, il grano, il frutto più sacro della terra, per miracolo, si trasforma in farina alimento primo dell’uomo. Il mulino ha ispirato nei secoli storie, leggende, favole, proverbi, romanzi, poesie, filastrocche e, più di recente, anche immagini di rara bellezza che, abbinate a raffinate campagne pubblicitarie, hanno esaltato i valori del lavoro, della natura e della famiglia. Sergio Gabbi, nel suo «Fascino della Memoria», descrive con grande passione e particolare trasporto, che gli derivava dalla sua profonda conoscenza delle tradizioni contadine, il mulino di una volta.

Il mulino, era un edificio che sorgeva sulla derivazione di un canale e, questa posizione, consentiva di realizzare, tramite chiaviche e condutture, un salto d’acqua di almeno cinque metri. Chiudendo le paratoie, il livello dell’acqua, all’interno del canale, si alzava. Il mugnaio, azionandole, faceva filtrare dalla griglia una certa quantità d’acqua nello scivolo sottostante detto «navetta» o «doccia».

Dallo scivolo, l’acqua cadeva in scodelle di legno fissate sulle ruote delle pale determinando un moto rotatorio che veniva trasmesso ai congegni della macina che poteva essere fissa o rotante. Quest’ultima, pesava dai sei agli otto quintali, aveva un diametro di un metro e mezzo ed era costruita in sasso massiccio o in sasso e cemento con cerchi di ferro.

Attraverso la «cavalletta», i cereali raccolti nella tramoggia posta in alto lungo la macina, erano convogliati nell’esiguo spazio tra le due mole dove si macinavano per sfregamento. La quantità di granaglie in uscita dalla tramoggia era regolata da un dispositivo detto «cóp» azionato tramite una corda. All’interno del mulino si trovava una grossa bilancia a pedana per pesare i sacchi ed un’altra a trespolo murato a forma di contenitore che serviva per le farine e i cereali sfusi. Oltre i mulini ad acqua nei cui canali, nella stagione propizia, i «molinär» potevano catturare anitre selvatiche che finivano in padella, nel Medio Evo, si diffusero i mulini galleggianti come quello mirabilmente descritto da Riccardo Bacchelli nel suo capolavoro, «Il mulino del Po», che narra l’avventurosa vita del mugnaio Lazzaro Scacerni e del suo mulino nella Guarda Ferrarese.

La corrente del «grande fiume» faceva muovere gli ingranaggi del mulino che era tutt’uno con l’abitazione del mugnaio. I natanti venivano ormeggiati dove la corrente era più forte ed ancorati sul fondo con la «burga» (gabbione di vimini pieno di sassi) inoltre erano fissati alla riva con grosse funi anche se le forti correnti costringevano spesso a variarne l’ubicazione. Chi non aveva la possibilità di portare personalmente le granaglie al mulino si serviva del «saccarolo» colui che, provvisto di mezzi propri, ritirava dai contadini i cerali e vi riportava il macinato. Il «saccarolo» era un mestiere molto faticoso che comportava il trasporto di sacchi che pesavano fino a 90 chili in condizioni spesso disagevoli come il salire e scendere scale strette e traballanti. L’abbigliamento del «saccarolo» era costituito da calzoni di tela, camicia a quadri e un grande fazzoletto annodato al collo. Sulla figura del mugnaio, negli anni, sono nati proverbi e modi dire molte volte irriverenti che mettevano in luce la sua «disinvoltura» nel pesare il grano: «con al sudór di cantonér, la cosiénsa di molinär, il lägormi di prét a gh’ véna fóra ‘n unguént ch’al guarissa tutt’ il malatjj».

Tanti erano i mulini anche dalle nostre parti, sia nella Bassa che in montagna, come quelli di Bosco di Corniglio e di Bellasola dell’ antica famiglia del posto Priori, esempi di attaccamento al lavoro ed alla propria terra. Ma ci fu un mulino, in particolare, che fu teatro di una brutta storia. «Tra il 1858 e il 1863- come riporta la Consulta del Dialetto Parmigiano- nel periodo tra la fine del ducato di Parma e Piacenza e l’annessione al regno d’Italia, la provincia di Parma fu attraversata da una grave crisi sociale ed economica derivante dalle profonde difficoltà in cui versava l’agricoltura, che provocò soprattutto nella zona, compresa tra la città ed il fiume Po, una serie infinita di rapine, furti, taglieggiamenti, omicidi e soprusi ad opera di una vera e propria banda armata di malviventi composta da taglia gole, ladri, borseggiatori, disertori o semplici disperati». L’episodio è rimasto famoso nella tradizione orale parmigiana come la «Buja d’ Boglés» (la rissa di Bogolese) che, in realtà, fu ben più di una rissa, addirittura, si trattò di uno scontro armato particolarmente cruento tra guardie, carabinieri e banditi terminato tragicamente con un paio di morti e tanti feriti lasciati al suolo. La sera del 15 febbraio 1863 (160 anni fa) una decina di malviventi, facenti parte della banda di Bogolese, armati fino ai denti, alcuni di loro travestiti da carabinieri, bussarono alla porta del mulino a notte fonda, con la scusa di cercare dei disertori in zona che pensavano essersi rifugiati nel mulino. Ma all’interno ad attenderli, oltre al figlio del mugnaio Domenico Paini, trovarono appostati anche una decina di guardie, informate in precedenza del colpo, da una soffiata precisa e dettagliata sull’operazione, da un traditore all’interno della banda, stanco di quella vita ed in cerca di immunità. Quella sera, i malviventi, avrebbero tentato ben tre colpi nei dintorni: una «visita» alla canonica del parroco don Francesco Tanari e un’ incursione nella casa di un facoltoso proprietario della zona, il sig. Maschi.

Ma il primo colpo, il più importante, sarebbe stato proprio lì, al mulino. Sapevano che il mugnaio aveva venduto da poco una grossa partita di suini ricavandone più di trenta mila franchi, ed era un bottino più che consistente per cercare di accaparrarselo. Ma la trappola era pronta, con l’adrenalina a mille ed il sangue che pulsava nelle tempie, una volta entrati all’interno dell’edificio, anziché arrendersi al colpo sparato in aria dal delegato di pubblica sicurezza a scopo intimidatorio, i banditi scatenarono un tremendo conflitto a fuoco nel buio più totale con le forze dell’ordine e, alla fine di quella sparatoria infernale, ci furono parecchi feriti anche gravi e due agenti uccisi. Come recita il finale della poesia di Pezzani (dalla raccolta «Bornisi» Battei editore) «I s’ciop is pion… E quand as fa maten’na/ A gh’è dill maci ‘d sang’v in-tla faren’na». Già, i cari vecchi mulini, antico retaggio delle nostre tradizioni padane. Quelli che macinavano grano di quella «tera bon’na da pan», che tutti abbiamo nel cuore. Ed ora si parla di un altro tipo di farina ricavata dalla macinatura da insetti: grilli e cavallette. Ma a noi piace immaginare i grilli, con i loro cori, allietare le notti estive e non finire in una micca di pane. Il progresso non è questo ma è nel passato che abbiamo dimenticato.

Lorenzo Sartorio

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