L'intervista
La Maxicono Parma vive ormai solo nei ricordi di un passato glorioso e incancellabile. Ma è tanto bello quanto romantico, se vogliamo, il fatto che i protagonisti della straordinaria epopea tratteggiata da quella mitica squadra continuino, nei rispettivi percorsi professionali, a collezionare trofei, scrivendo nuove pagine di storia della pallavolo.
L’ultimo, in ordine di tempo, è Massimo Botti, classe 1973, che da giocatore è cresciuto proprio nelle giovanili di Parma, vincendo poi – tra il 1990 e il 1995 – due scudetti, una Coppa Italia e due coppe Cev. Domenica scorsa, un’altra Coppa Italia Botti l’ha alzata al cielo a Roma, con la sua Gas Sales Bluenergy Piacenza, stavolta da capo allenatore. Un trionfo che ha assunto contorni addirittura epici per come maturato. Prima la vittoria in semifinale sul Perugia di Andrea Anastasi, formazione che non aveva mai perso nei 33 incontri fin qui disputati in stagione (compresi Mondiale per Club e Champions), quindi una nuova prestazione sontuosa nel match decisivo contro l'altra corazzata Trento. «Che sapore ha questo successo? Dolce, dolcissimo» rivela ancora emozionato Botti alla «Gazzetta di Parma». «Un epilogo inaspettato – aggiunge - perché non partivamo di certo con i favori del pronostico, sebbene in ogni caso fossimo consapevoli delle nostre qualità. Abbiamo vissuto un periodo complicato, a causa di una serie di infortuni. Ma a questo appuntamento siamo arrivati carichi e determinati».
Botti, la domanda che tutti vorrebbero farle è una: come si batte Perugia?
«La partita dell’altra sera dimostra, semmai ce ne fosse bisogno, che non esistono squadre imbattibili. Gli umbri venivano da una serie positiva incredibile. Eppure i miei ragazzi, che avevano affrontato Perugia anche in periodi precedenti, sono scesi in campo con un atteggiamento adeguato, propositivo, senza temere in alcun modo il confronto. Questo ha segnato senza dubbio un punto a nostro favore».
Il segreto del suo Piacenza?
«Risposta fin troppo scontata, ma assolutamente veritiera: il collettivo. Questa squadra è composta da individualità di spessore, ma la differenza la fa il gruppo. Sempre».
Lei che è piacentino, si sente un po’ profeta in patria?
«No, affatto. Mi considero semplicemente un privilegiato. Vede, nel nostro mestiere siamo abituati ad avere sempre la valigia in mano: io, invece, ho la fortuna di allenare nella città che mi ha dato i natali, dove ho tutti gli affetti più cari. Credo anche di essermelo meritato».
Fortuna significa anche avere alle spalle una società solida, vero?
«Assolutamente. E questo alimenta ancor di più l’orgoglio, in noi, per quello che si sta facendo. Lavoro con questo club praticamente fin dai suoi albori: sono stato la prima scelta della proprietà, quando questa avviò il progetto triennale che avrebbe dovuto condurre la squadra in Superlega, dalla A2. Centrammo la promozione al primo tentativo. Non fu un caso, però: alla base c’erano programmazione e lungimiranza».
È ancora legato a Parma?
«E come potrei non esserlo: qualcuno dice che ho addirittura conservato l’accento (ride, ndr). È un legame che non si è mai spezzato: a Parma torno sempre volentieri. In questa città ho vissuto anni stupendi: il periodo della mia formazione pallavolistica nelle giovanili, il calore del Palaraschi, l’onore di scendere in campo al fianco di giocatori tra i più forti al mondo, il rapporto speciale con un grandissimo maestro, Bebeto. E poi, la vita oltre la pallavolo: gli amici e la mia scuola, l’Itis».
Ho percepito un misto di emozione e nostalgia, nel suo tono di voce, quando ha citato Bebeto.
«È stata la persona più importante, nel mio percorso di crescita: Bebeto non aveva paura di dare fiducia ai giovani, di farli giocare, concedendo agli stessi persino la possibilità di sbagliare. Lui andava oltre la cura e l’insegnamento degli aspetti tecnici: da Bebeto ho imparato anche come ci si relaziona con le persone, nel contesto di un gruppo».
E tra i compagni di quella Maxicono, invece, chi erano i suoi punti di riferimento?
«Con Radicioni e Giretto ho coltivato una bella amicizia anche fuori dalla palestra. In campo, invece, il mio modello è sempre stato Andrea Giani: mi ispiravo a lui».
Non passa inosservato nemmeno che da quella Maxicono siano usciti anche tanti bravi allenatori oggi sulle panchine di Superlega: Giani, Piazza, lei stesso.
«È un accostamento che mi lusinga: non so in quanti lo avrebbero fatto fino a ieri. Parma, evidentemente, è stata un’ottima scuola per tutti».
Con la conquista della Coppa Italia, avete dato probabilmente un segnale in vista del prosieguo di stagione. Cosa si augura per il suo Piacenza?
«Che la squadra continui a star bene fisicamente e che la fortuna possa assisterci. Viviamolo intensamente, il resto della stagione. Cercando di toglierci altre soddisfazioni e di arrivare fino in fondo senza rimpianti».
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