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1953-2023

Dna: 70 anni fa la scoperta della «doppia elica», il codice della vita

Dna: 70 anni fa la scoperta della «doppia elica», il codice della vita

di Franco Lori

07 Marzo 2023, 03:01

In un clima giovane e festoso, soprattutto a partire dal dopocena, ma allo stesso tempo profondamente scientifico, troneggiava la figura di Jim Watson, che non partecipava al meeting ma si vedeva passeggiare nei prati della “tenuta” vestito di chiaro e col cappello a tesa, e che da buon padrone di casa era più simile a un J.R. di Dallas che allo scienziato biologo, il più famoso del ventesimo secolo e tra i più famosi di sempre.

Ma ripercorriamo la storia che culminò nel modellino di filo di ferro e legno ultimato dallo stesso Watson e dal suo collega Francis Crick il 7 marzo 1953, vale a dire 70 anni fa. Quello che per la prima volta svelava la forma della molecola «che riproduce la vita», quella del Dna. Dobbiamo partire dal 1928, anno in cui Frederick Griffith scopre che le cellule posseggono un «principio trasformante», cioè un qualche cosa che se trasmesso da una cellula all’altra ne cambia le caratteristiche. Ma cosa era questo «principio trasformante»? Certamente proteine, pensavano tutti, che hanno un linguaggio composto da 20 lettere (aminoacidi), quasi come il nostro alfabeto, quindi duttile, malleabile, in grado di costruire milioni di parole. Come poteva il Dna fare lo stesso dal basso del suo alfabeto composto di sole 4 lettere (nucleotidi)? E nonostante Oswald Avery nel 1944 avesse dimostrato che il «principio trasformante» di Griffith non potesse che essere il Dna, non era stato creduto, a riprova di quanto i dogmi siano a volte duri a morire.

Dovranno passare quasi 10 anni (1952) prima che Alfred Hershey e Martha Chase dimostrassero che il dogma non poteva reggere. In quel decennio la scienza aveva progredito, si conoscevano bene i batteriofagi (specie di virus che infettano i batteri, grazie al lavoro di Salvatore Luria, anch’esso premio Nobel) e si poteva distinguere il Dna dalle proteine (il primo conteneva fosforo e le seconde potevano contenere zolfo). Marcando radioattivamente il fosforo e lo zolfo per tracciare dove andava a finire l’informazione, usando i batteriofagi come «mezzo di trasporto» per infettare le cellule batteriche ed utilizzando infine una straordinaria e rivoluzionaria tecnologia che permetteva di agitare il tutto, vale a dire un frullatore da cucina, i due riuscirono a provare in maniera definitiva che la informazione genetica era contenuta nel Dna, non nelle proteine.

Altrettanto determinante, nello stesso anno, il lavoro di Erwin Chargaff, che stabiliva una proporzione costante (di 1:1) fra i nucleotidi basati su adenina e timina e gli atri due basati su guanina e citosina, in ogni specie vivente. Invece le proporzioni fra la somma dei primi due e quella dei secondi due variavano a seconda della specie. Straordinario come la natura, con sole 4 lettere a disposizione, potesse assicurare allo stesso tempo continuità e variabilità. Con queste caratteristiche il Dna avrebbe potuto copiarsi in modo fedele (proprietà della invarianza) e nello stesso tempo dare a origine a tanti progetti di vita diversi (proprietà della varianza).

Ma come faceva il Dna a fare tutto questo? E come entrano in gioco Watson e Crick? In realtà Watson voleva fare il naturalista, per poter vivere all’aperto, e questo almeno spiega perché a Cold Spring Harbor lo vedessimo sempre fuori a mai dentro gli edifici. Crick era un fisico. Si erano incontrati a Cambridge (Gran Bretagna), per caso. Crick ci lavorava da alcuni anni, Watson ci era arrivato alla ricerca di qualcuno che si interessasse di Dna e non di proteine, come facevano quasi tutti. Per questo era partito dagli Stati Uniti con il benestare del suo mentore Luria per venire in Europa, prima a Copenaghen, dove era rimasto deluso, poi a Cambridge.

Chi istituzionalmente doveva occuparsi di Dna era il gruppo di Rosalind Franklin e Maurice Wilkins, al King’s College di Londra. Rosalind era una chimica, specializzata nella diffrazione dei raggi X, una tecnica che permetteva di analizzare molecole di grandi dimensioni. Una grande lavoratrice, ossessionata dalla evidenza sperimentale più che dalle elaborazioni teoriche. Watson e Crick appartenevano al Gotha scientifico dei biologi e dei fisici, che guardavano dall’alto in basso i chimici che facevano il lavoro “sporco” di manovalanza. Ma si rendevano conto che senza la chimica non ci sarebbe stata una risposta alla domanda fondamentale: come era strutturato il Dna, e come questa struttura consentiva la replicazione e quindi la trasmissione genetica? Perciò entrambi temevano Linus Pauling, brillante biochimico che lavorava a Pasadena, in California, già insignito del premio Nobel.

Tre fortissimi gruppi in competizione, ma la fortuna aveva scelto Watson e Crick. La Franklin aveva praticamente già la risposta in tasca, aveva scattato la “foto 51”, quella in cui si capiva chiaramente che il Dna doveva avere una struttura ad elica, ma era in contrapposizione con il proprio responsabile Wilkins, il quale non esitò a mostrare la foto a Watson, che appena la vide saltò sul treno per tornare a Cambridge ed iniziare forsennatamente a costruire il famoso modellino in fil di ferro e legno. Anche Linus Pauling aveva intuito che il Dna dovesse avere una struttura ad elica, ma aveva postulato una tripla elica. Non aveva le profonde conoscenze di fisica di Crick e peggio ancora non aveva potuto vedere la “foto 51”, grazie alla quale si sarebbe immediatamente reso conto che si trattava di una doppia elica. Avrebbe in realtà voluto venire a Londra, ma gli Usa non gli avevano rilasciato il passaporto per via delle sue posizioni politiche troppo filo-russe. Un embargo, come nei giorni nostri, gli aveva precluso l’accesso alla verità. Al contrario, avevano lasciato entrare il figlio, Peter Pauling, che inconsciamente teneva costantemente Watson e Crick aggiornati di quello che faceva il padre Linus.

Dalla “foto 51” si capiva non solo la struttura, ma si capivano anche le distanze fisse fra le spirali dell’elica e il suo costante diametro di sezione (di 2 nanometri). Ciò nonostante non si poteva risolvere questa costante se non applicando le leggi di Chargaff. Watson e Crick si erano ben guardati dall’andare a leggere il suo lavoro, che avrebbero ignorato bellamente, e sarebbero rimasti ad arrovellarsi inutilmente il cervello se non fosse stato lo stesso Chargaff a venire a Cambridge alcuni mesi prima e ad illustrare in una conferenza i propri risultati. Se ad un’adenina si contrapponeva una timina e ad una guanina una citosina, lasciando l’ingombrante residuo di fosforo all’esterno, si poteva ricostruire la molecola del Dna. La struttura del modellino di fil di ferro e legno era ora compatibile con quello della “foto 51”. Era il 7 marzo 1953.

L’articolo fu pubblicato il 25 aprile 1953, sulla prestigiosa rivista «Nature». L’ Italia in quel giorno celebrava l’ottavo anniversario di liberazione dalla occupazione nazifascista, ed era in festa. Probabilmente i nostri scienziati lessero questo articolo solo il giorno dopo. Come il «m’illumino d’ immenso» nella sua brevità ha lasciato un capolavoro ai posteri e reso definitivamente grande Giuseppe Ungaretti, così fu breve quell’articolo. Meno di mille parole, sei citazioni bibliografiche, un solo disegno, basilare, fatto da Odile, moglie di Crick. Ma nella sua brevità conteneva la descrizione dell’essenza della vita, suggeriva la struttura della nostra memoria genetica e nel frattempo indicava come la memoria stessa potesse replicarsi all’infinito. E consegnava alla storia i nomi di Jim Watson e Francis Crick.

A corollario, nello stesso numero della rivista, due articoli indipendenti, uno di Maurice Wilkins e l’altro di Rosalind Franklin, che completavano lo scenario e di fatto avvallavano l’ipotesi. Senza il lavoro di Rosalind non ci sarebbe stata quella scoperta storica, ma Rosalind non ricevette il premio Nobel. Senza il lavoro Martha Chase, Alfred Hershey non avrebbe mia vinto il premio Nobel, che non fu però mai assegnato a Martha. Rosalind, come le sue colleghe, non aveva diritto alla laurea, poteva solo partecipare alle lezioni universitarie come uditrice, come loro doveva stare nei primi banchi per non distrarre i colleghi che altrimenti si sarebbe voltati a guardarle, si ritrovava con loro negli sgabuzzini, mentre i colleghi facevano “ricreazione” in eleganti salotti. Venivano chiamate «sir» perché non esisteva un equivalente femminile per portar rispetto.

Questo accadeva allora. Oggi tutto è cambiato, abbiamo una donna primo ministro, una donna a capo dell’opposizione, una donna presidente della Corte di cassazione. O forse non tutto è cambiato, non ho neanche dato loro i titoli appropriati, forse avrei dovuto scrivere prima ministra e questo errore anche apparentemente veniale spiega ancora dei tanti retaggi rimasti. Ha davvero ragione la presidentessa della Corte di cassazione, Margherita Cassano, quando dice che la parità fra uomo e donna si raggiungerà soltanto quando la nomina di una donna al suo prestigioso ruolo non farà più notizia. Ma mi fa piacere pensare che tutto questo sia di buon auspicio per la giornata di domani, 8 marzo, in cui si celebrano le donne, i loro sacrifici anche a rischio della morte, così come accadde alla donne della Fabbrica Triangle il 25 marzo 1911 e così come succede oggi a chi semplicemente osa mostrare il proprio volto. Siano esse donne di scienza o no, buon 8 marzo a tutte loro.

P.S. In verità ho potuto ricostruire la storiografia di questo articolo solo grazie all’aiuto di mia moglie, Emanuela Montagna, che insegna Scienze naturali al Romagnosi e che racconta questa storia ai propri studenti ogni anno. Grazie e buon 8 marzo anche a te, Emanuela.

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