L'intervista
Quattrocento metri fatti di corsa sono sempre una questione di secondi. Ma tra lo «start» e un traguardo che riesce talvolta a spalancare le porte della gloria, esiste un concentrato di sacrifici e di speranze coltivate in un lungo e intenso lavoro di preparazione. «Un percorso durante il quale non ci si risparmia mai, che sollecita le ambizioni e dove i passaggi tecnici, intesi come miglioramenti, si accompagnano ad un processo di maturazione a livello interiore» lo definisce Ayomide Folorunso. La velocista fidentina, cresciuta nel Cus Parma e ora in forza alle Fiamme Oro, domenica sera nella finale della staffetta 4x400 ai Campionati europei indoor di Istanbul si è messa al collo una splendida medaglia d’argento, insieme ad Alice Mangione, Anna Polinari ed Eleonora Marchiando. Le azzurre hanno fermato il cronometro a 3’28”61. Che non è stato sufficiente per superare l’Olanda, ma in compenso è servito per ritoccare di due secondi il precedente record italiano. «È un tempo importante, che probabilmente però non basta per una finale mondiale» guarda già avanti Folorunso. «La nostra specialità, negli ultimi anni, è letteralmente esplosa: c’è una generazione di atlete ricca di talento, che scalpita. I grandi tempi che magari una volta potevano garantirti una medaglia, oggi ti bastano sì e no per guadagnarti una finale. Bisogna alzare continuamente l’asticella».
Al prezzo di innumerevoli sacrifici personali, no?
«Se vuoi ottenere qualcosa in più, devi investire di più: in termini di risorse fisiche, mentali ed economiche, come mi è capitato proprio di recente per andare ad allenarmi in Sudafrica. E quando arrivi all’obiettivo che ti sei posta, sai già di dover fare ancora meglio».
Sono pressioni complicate da gestire?
«Il rapporto con l’atletica, e in generale con tutto quello che faccio, lo vivo con la curiosità di vedere fin dove riesco a spingermi. E, giorno dopo giorno, è incredibile scoprire come certi limiti siano ben più lontani di quanto pensavi».
Ha accennato al periodo trascorso in Sudafrica, tra novembre e gennaio: che esperienza è stata?
«Due mesi stimolanti, sotto la guida di Laurent Meuwly. Nei 400 e 400 ostacoli, lui allena praticamente le più forti al mondo: le olandesi Bol e Klaver, la polacca Kielbasinska, l’ucraina Tkachuk, la finlandese Lehikoinen. In passato Meuwly aveva seguito anche la svizzera Lea Sprunger, plurimedagliata europea. Immaginate, quindi, cosa possa voler dire lavorare in un simile contesto: aggiunge valore e qualità. Al professor Pratizzoli, il mio allenatore, prima di partire ricordo di aver detto che, con un livello del genere, avrei dovuto indossare tutti i giorni il pettorale di gara. Ma devo ammettere che altrettanto interessante si è rivelato anche il contatto umano con queste atlete».
Quanto conta la figura di Maurizio Pratizzoli per lei?
«Mi conosce da una vita: sa come reagisco di fronte a certe situazioni e cosa posso dare. Anche in Sudafrica, la sua presenza è stata fondamentale: l’occhio vigile del prof ha contribuito ad armonizzare un lavoro iniziato nel 2019. Già allora, infatti, Pratizzoli aveva studiato le strategie, curando ogni dettaglio: lui è veramente il top. Poi, al mio fianco, operano altri professionisti: il fisioterapista Paolo Malpeli, lo staff del centro di fisioterapia Zenit di Fidenza, il posturologo Vincenzo Canali, il mental coach Alessandro Mora, la mia manager Chiara Davini. Insieme ai miei tifosi, allo sponsor Nike e al gruppo sportivo Fiamme Oro, sono stati preziosi: loro c’erano ben prima della medaglia agli Europei».
Prima il titolo italiano ad Ancona, quindi l’argento nella rassegna continentale: se l’aspettava una stagione indoor così?
«L’indoor l’avevo sempre vissuta come una tappa di passaggio: mi serviva per valutare la condizione e mettere velocità nelle gambe, in previsione degli appuntamenti all’aperto. Quest’anno è stato diverso: essere riuscita a raccogliere i frutti di tanto duro lavoro, rincuora ed entusiasma».
Torniamo alla staffetta di domenica e alle sensazioni vissute. Cosa ha provato?
«Mi piace partire da come siamo arrivate a questi Europei: la nostra staffetta aveva gli stessi tempi della Francia. Per stabilire quale delle due dovesse partecipare, è stato necessario un sorteggio. Che ci ha premiate. Ritrovarsi, da ripescate, sul podio ti lascia quasi senza fiato. Nei giorni che hanno preceduto la gara, ho accumulato una dose di energia che non vedevo l’ora di sprigionare. Aspettavo con impazienza il mio momento. Il giorno prima della finale, poi, ho fatto un sogno...».
Me lo vuol raccontare?
«Era un'intervista nella quale esprimevo tutta la mia gioia per la medaglia vinta. Era talmente realistico come sogno che quando mi sono svegliata pensavo di averla già disputata, la finale».
Invece il bello della realtà doveva ancora arrivare.
«Mi ha dato una carica ulteriore. Ma i sogni, da soli, non bastano: per centrare i risultati servono impegno, qualità, carattere. E anche altro. Io non credo alla casualità: sono convinta che sia la mano divina, eterna e piena di amore, a muovere i fili della mia vita. La fede, per me, è un pilastro. E grazie alla fede, tutto ha un senso».
E poi c’è la famiglia, un altro punto di riferimento.
«Voi vedete il bello: i sorrisi, le vittorie. La famiglia, invece, assorbe anche il brutto: la tristezza, le arrabbiature quotidiane. Ed è nelle difficoltà che rafforza il proprio sostegno».
Ayo è cresciuta: si sente più pronta e solida, mentalmente?
«Le mie compagne della staffetta sono giovani. E mi fa uno strano effetto, perché fino a non molto tempo fa la più piccola ero io mentre adesso mi sento una veterana (ride, ndr). Nella Ayo di oggi c’è più maturità e una nuova consapevolezza di ciò che potrei diventare. Una medaglia d’argento agli Europei può e deve essere la molla per un obiettivo più grande. Nello sport, anche dopo aver ottenuto un grande risultato, la vera bellezza è poter continuare ancora a stupire se stessi».
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