Al Regio
Conquista il pubblico, dopo 42 anni di assenza dal palcoscenico del Teatro Regio di Parma, «Adriana Lecouvreur», opera di Francesco Cilea che è andata in scena ieri sera, penultimo titolo della Stagione Lirica 2023.
Gli applausi a scena aperta hanno sostanzialmente accompagnato il corso dello spettacolo, complice un cast ben assortito, a partire dalla protagonista Maria Teresa Leva che impersona un’Adriana Lecouvreur ben risolta vocalmente, capace di pianissimi e finezze; spicca anche il Michonnet di Claudio Sgura, padrone del ruolo dal punto di vista interpretativo e recitativo, applauditissimo dopo il suo «Ecco il monologo...». Sempre amata dal pubblico di Parma Sonia Ganassi, al debutto nel ruolo della Principessa di Bouillon, che ha ricevuto ovazioni per «Acerba voluttà». Forse meno a fuoco il Maurizio di Riccardo Massi che ha comunque guadagnato i suoi applausi, e, tra i comprimari, si è fatto notare il bravo Adriano Gramigni nel ruolo del Principe di Bouillon. Con loro Saverio Pugliese (L’abate di Chazeuil), Stefano Consolini (Poisson), Steponas Zonys (Quinault), Vittoriana De Amicis (Mademoiselle Jouvenot), Carlotta Vichi (Mademoiselle Dangeville).
Il direttore Francesco Ivan Ciampa, alla guida dell’Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini, ha fatto funzionare la macchina musicale, pur con una densità di suono che ha creato qualche squilibrio tra buca e palcoscenico, coprendo qua e là le voci (al suo rientro in scena, dopo l’intervallo, qualcuno del pubblico ha pensato di suggerire in italian-parmigiano: «Ciocca meno!»). Bello il cameo del Coro del Teatro Regio di Parma nel terzo atto, come sempre ben preparato dal maestro Martino Faggiani.
L’idea registica di Italo Nunziata, fondata su un gioco di specchi tra vita reale e teatro, rimane sullo sfondo della musica, senza protagonismi. Le scene di Emanuele Sinisi ricreano un retropalco di teatro, con il nero prevalente, illuminato quasi costantemente da toni freddi delle luci di Fiammetta Baldiserri. Soli colori, il sipario rosso e alcuni begli abiti delle primedonne firmati da Artemio Cabassi. Se, a tratti, lo spettacolo pecca di qualche staticità, il terzo atto sembra quello più risolto. È proprio l’attrice Adriana Lecouvreur, in qualche modo, l’unica che non sa recitare sul palcoscenico della vita, disarmata e priva di maschere tra persone che recitano ruoli. Ben risolti qui i movimenti delle masse e appropriata la citazione, nelle coreografie di Danilo Rubeca, delle movenze di Merce Cunningham e Martha Graham, coerenti con l’ambientazione negli anni Cinquanta dell’allestimento. Alla fine, Adriana morirà nel suo teatro, pronunciando le parole «Ecco la Luce, che mi seduce, che mi sublima...» mentre il sipario, sino ad allora rimasto sempre chiuso, si apre a mostrare il pubblico.
Lucia Brighenti
Ecco «l’odor di palcoscenico» di cui parla Michonnet nel capolavoro di Cilea e «Adriana» è finalmente tornata a respirare quello del Regio dopo 42 anni di assenza.
La prima è stata un successo attribuito, dal pubblico nel foyer, ad uno spettacolo elegante e ad un cast di interpreti dalle voci anch’esse eleganti che ben si sposavano con la cifra di scene, costumi e regia. «La protagonista Maria Teresa Leva ha puntato più sul lirismo del personaggio che sull’aspetto della tragédienne ma mi è piaciuta, la voce è di qualità, molto belli i pianissimi -spiega Gianni Oppici - Il tenore Massi non è male, ha presenza scenica, naturalezza e bel timbro. La trasposizione negli anni ‘50 funziona».
In quest’opera i personaggi vivono uno in relazione all’altro ma il motore è Michonnet, qui interpretato da Claudio Sgura che ha entusiasmato il pubblico. Rino Mori dice che «Sgura è bravissimo, il fraseggio è scolpito, ha messo il cuore in questo personaggio pieno di umanità e malinconia». Al centro del foyer i commenti si muovono tra passato e presente. «Per Adriana serve una primadonna di assoluto magnetismo - spiegano Giuseppe Bertacchini e Viviana - ricordo la Olivero, la Tebaldi e qui al Regio per due volte Raina Kabaivanska. Detto questo, la Leva ha una bella voce ma la Ganassi è di un’altra galassia». Oreste Bergamaschi è ancora entusiasta della visita, ieri, del cantante pop Elio al Club dei 27 e dice « Mi piace molto Sgura, la Ganassi è alto livello e bella la chiave di lettura dell’allestimento. E’ funzionale e coerente». Per Bruna Rodolfi: «brava la Leva, mi è solo mancato un po’ di carisma che invece ha la “rivale” Ganassi. Gli acuti sono sfavillanti e la sua Bouillon è parecchio intrigante. Quando è in scena è sempre una lezione per tutti». Più perplessa, visto che la parte si muove su note centrali, è la signora Franca Rai: «Non sono convinta che la Ganassi abbia la voce per la Bouillon, come poteva essere una Cossotto, ma devo dire che, anche se qualcosa nel suo canto si perde sotto al peso dell’orchestra, mi ha conquistata. Acuti intatti ed è dentro al personaggio fino all’osso. Una vera artista. Molto bravo Sgura, e l’abate Saverio Pugliese. Anche il maestro Ciampa è riuscito a farmi emozionare con alcune dinamiche orchestrali che mi sono arrivate all’anima». Il soprano Paola Sanguinetti ha cantato il ruolo in carriera e non ha dubbi: «il top è Sgura, quello più nella parte; la Ganassi è una fuoriclasse. Questi grandi artisti hanno il mestiere e si distinguono sempre fra tutti. Il tenore è bravo ma questo è un ruolo che dovrà maturare meglio. La Leva ha i mezzi per cantare Adriana ma mi è apparsa un po’ intimorita. Forse è l’effetto della prima. Stupendi i costumi, Artemio è riuscito ad evocare lo sfarzo settecentesco attraverso gli anni ‘50».
Ilaria Notari
C'era una volta il pubblico a cui interessava soltanto l'acuto. La potenza e la durata di una nota poteva facilmente riscattare un'interpretazione approssimativa e la mancanza di un approfondimento psicologico. Il loggione del Regio, a dire il vero, non ha mai avuto questo tipo di clemenza... Recentemente il feticcio dell'acuto è stato soppiantato da altri più sinuosi e maliardi come i filati e i pianissimi. Se il più delle volte possono, senza dubbio, diventare sinonimo di raffinatezza e musicalità, non è sempre possibile realizzare un personaggio complesso, come può esserlo uno dell'opera Adriana Lecouvreur, soltanto con questi mezzi a disposizione.
Ma il rovescio della medaglia qual è? Che ad alcuni loggionisti della vecchia guardia la direzione sia sembrata un po' troppo presente. Certamente l'orchestrazione corposa di Cilea non ha reso facile al direttore l'accompagnamento delle voci. «Pare una banda», sentenzia qualcuno e naturalmente il «pare» non deve essere immaginato come un rimando a Dante mentre parla di Beatrice, ma nell'intercalare dialettale con la «a» bella aperta che scivola verso la «e». La stessa loggionista ha poi contestato l'ingresso del direttore (invitandolo a suonare meno forte) all'inizio del terzo atto, appena finito l'intervallo. In generale tutti gli interpreti sono stati apprezzati come pure l'allestimento che qualcuno ha confessato: «lo avevamo già visto l'anno scorso a Modena». Se una volta i commenti erano praticamente tutti rivolti ad Adriana e Maurizio, ieri sera è stato Michonet a rubare quasi la scena agli altri e anche la Principessa di Boullion è stata salutata con grande calore alla fine della propria aria. Non è piaciuta troppo, invece, la declamazione dei versi di Adriana: «mi è sembrato - ammette qualcuno - che assomigli un po' troppo alla Cavalleria Rusticana di "Hanno ammazzato compre Turiddu" e anche il suo modo di morire avvelenata alla fine dell'opera mi ha ricordato qualcos'altro, fin troppo concerto».
Giulio Alessandro Bocchi
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