IN VERSILIA
Il sorriso che si allarga su quel volto bellissimo. Ha i colori dell'estate, Sofia Bernkopf. Nello sguardo la luce e la spensieratezza dei suoi 12 anni. Aveva mille corse da fare, mille sfide che l'attendevano, ma tutto si è spezzato il 17 luglio 2019, quattro giorni dopo quel bagno nella piscina dello stabilimento Texas di Marina di Pietrasanta. Il viso imprigionato sotto 80 centimetri d'acqua perché i capelli erano rimasti incagliati nella bocca d'aspirazione dell'impianto di ricircolo dell'idromassaggio: il suo cuore si era fermato, aveva ripreso a battere, ma poi Sofia se ne era andata in ospedale senza mai riprendere conoscenza. Sono passati quasi quattro anni. Di dolore, amarezza e speranza per la mamma Vanna, il papà Edoardo, il fratello gemello Tommaso e le sorelle Vittoria e Giulia. Ma ieri è arrivata una prima risposta alle domande di verità della famiglia: il gup di Lucca, Alessandro Trinci, ha rinviato a giudizio Elisabetta e Simonetta Cafissi, titolari dello stabilimento, i rispettivi mariti e datori di lavoro, Giampiero Livi e Mario Marchi, i bagnini Thomas Bianchi ed Emanuele Fulceri ed Enrico Lenzi, fornitore e installatore della piscina idromassaggio. Tutti, in relazione ai loro ruoli, sono accusati di omicidio colposo. Il processo prenderà il via il 20 ottobre prossimo.
E' un lungo e articolato atto d'accusa quello messo nero su bianco dal pm Salvatore Giannino. Norme di sicurezza violate e nessuna cautela rispettata, perché - secondo la procura - sarebbe stata consentita la balneazione senza un idoneo servizio di videosorveglianza e salvataggio. Nemmeno un defibrillatore o un pallone Ambu sarebbe stato presente. Era stato un ragazzo ad accorgersi che Sofia era prona sull'acqua ed era stato lui a liberarla, con grande fatica, dalla griglia di aspirazione ancora prima che arrivassero i bagnini. Un impianto che, come accertato dalla consulenza tecnica, aveva una «forza di aspirazione smisurata», tanto da diventare un pericolo per chiunque si fosse immerso nella vasca. Sia i titolari che i bagnini non avrebbero avuto la formazione adeguata sul funzionamento dell'impianto e per garantire la sicurezza.
Sofia non sarebbe mai riuscita a liberarsi da sola da quella morsa sott'acqua, ma d'altra parte non era presente un sistema di blocco e sicurezza. Il bagnino, poi, non era a bordo vasca, perché aveva anche altre mansioni da svolgere che lo tenevano lontano dalla piscina.
E le difese degli imputati? Hanno schierato pezzi da novanta, come Tullio Padovani del foro di Pisa, uno degli avvocati della strage di Viareggio. Toni duri nelle arringhe, in alcuni casi anche nei confronti della ricostruzione del pubblico ministero. Nessun imputato ha optato per riti alternativi: tutti hanno deciso di andare avanti, puntando al dibattimento. Sfileranno testimoni e consulenti, bisognerà ripercorrere ogni istante di quella giornata, oltre tutto ciò che è stato fatto (e non fatto) dall'installazione della piscina in poi.
«Dopo tutti questi anni, c'è soddisfazione per questo primo risultato - sottolinea Stefano Grolla, difensore della famiglia di Sofia, che si è costituita parte civile -. Questo è un processo in cui le difese hanno tentato di scagionare i propri assistiti puntando il dito contro gli altri, così tutti si sono accusati. Oggi (ieri, per chi legge), in particolare, il professor Marzaduri, difensore di Bianchi, ha accusato apertamente gli altri imputati. Per questo, il dibattimento servirà per distinguere le singole responsabilità. E sono convinto che il pubblico ministero chiederà pene esemplari».
Hanno atteso per quasi quattro anni. Un tempo lunghissimo. Infinito per la mamma e il papà di Sofia. Hanno ripercorso ogni attimo di quel giorno d'estate che li ha fatti precipitare in un abisso di sofferenza. Di domande senza risposta. E ieri, alla lettura della decisione del giudice, la tensione si è sciolta nel pianto. Lacrime di conforto. Liberatorie.
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