C'era una volta
Siamo ancora scossi dalla tragica morte di un giovane runner che ha perso la vita nell’aprile scorso in Trentino a causa dell’aggressione di un orso, per la precisione, di un’orsa. Nelle nostre montagne, almeno per il momento, di orsi, pare non esserci traccia. Sono più che sufficienti quelle dei lupi che, non accontentandosi più di praterie e boschi, scendono a valle facendosi avvistare anche alle porte della città. Ma un tempo gli orsi popolavano anche le nostre montagne. Ad esempio, sul monte Orsaro, il cui nome sembrerebbe derivare dalla presenza di orsi sin verso la metà del XVII° secolo, le cronache locali narrano che l'ultimo esemplare di orso fu catturato e ucciso alla fine del XVII° secolo.
Per i nostri valligiani l’emigrazione verso i paesi d'oltralpe, agli inizi dell'Ottocento, era costituita particolarmente da suonatori ambulanti ed ammaestratori di bestie. Come pappagalli, scimmie e anche.. orsi. Lasciavano alle spalle la miseria delle loro vallate, non solo per necessità, ma anche perché animati da uno spirito di avventura che li portava spesso molto lontano. La storica Giuseppina Villy Sciarratta sulle pagine dell ‘ «Araldo della Madonna di San Marco» scrisse, al proposito, un bellissimo articolo ricco di preziosi riferimenti storico culturali ed etnografici. Le ricerche di Sciarratta esordiscono con una nota tratta da un registro parrocchiale di Illica, frazione di Bedonia.. «Si fa menzione che Giovanni di Domenico Draghi e Vincenzo del fu Domenico Draghi, essendo stati due anni nella Germania con un orso e una scimmia e venuti sani e salvi a casa sua, regalano alla Beata Vergine del Carmine un cuore d’argento che questo sia appeso in perpetuo al collo della statua della di essa Beata Vergine e non sia venduto e incantato». La data è del luglio 1797. La professione di ammaestratori di bestie, dunque , è antica e deriva direttamente da quelle compagnie ambulanti del Cinquecento e del Seicento, anche se divenne un fenomeno non trascurabile a partire dai primi anni dell'Ottocento. «Gli animali- prosegue la studiosa - erano i protagonisti di questi viaggi: si iniziava con un pappagallo per poi passare alla scimmia e quindi all’orso. L'orso era un acquisto importante: lo si faceva venire dall’Abruzzo, dopo anni di risparmi. Chi li addestrava, ed erano in pochissimi a saperlo fare, li teneva rinchiusi da piccoli in una casa di pietra e li istruiva per un anno intero. Nel bedoniese esistono ancora le «ca' de l'ors»
dove gli orsi venivano ricoverati prima dei grandi viaggi, le museruole di ferro, i collari. L'orso ballava a suon di musica, eseguiva piccoli esercizi, fingeva di lottare con il suo padrone.
Quando si riteneva che fossero pronti, il proprietario, tenendo la bestia per la catena partiva per il suo viaggio verso Fiorenzuola, Piacenza, risalendo il Lombardo Veneto per arrivare alla Germania, alla Polonia, alla Russia. Il paese di Cavignaga di Bedonia divenne noto ben presto come luogo di addestramento e, da qui, partì Paolo Bernabò, ritenuto uno dei più lontani antenati degli «orsanti», che ben presto riuscì a costituire un circo.
Ai numerosi giocolieri, orsanti e scimmiari partiti da queste montagne va il merito di aver prodotto con coraggio e fantasia spettacoli alla portata di tutti. Si avventuravano in questa attività incerta e dura spinti dalla necessità ma anche dalla passione, assurta ad arte vera e propria, non priva di fascino. Non solo arrivavano fino a Napoli e Palermo, ma anche in Scandinavia e in Russia, spingendosi sino in Egitto. Per avere un aiuto e non viaggiare da soli erano soliti farsi accompagnare da uno o più «domestici». Per questo ruolo ben si adattavano i bambini che costavano poco di paga e che, soprattutto, potevano suscitare pietà nei presenti e quindi raccogliere maggiori offerte. Non poche sono le storie di questi adolescenti che lasciavano le famiglie per un destino incerto. Nei documenti del Ministero degli Esteri del Ducato Parmense si può consultare un carteggio che racconta come un fanciullo di otto anni fosse stato affidato dal padre a tale Maisà. Giunto a Parigi, il ragazzo abbandonò il padrone per i maltrattamenti che era costretto a subire e trovò accoglienza presso una famiglia che non volle riconsegnarlo al padre quando questi si recò a riprenderlo. Il ragazzo non tornò e il legislatore disse: «Le ragioni del padre han perduto molto della loro forza per la condotta che ha avuto nei confronti del figlio». Raramente le donne seguivano il marito. Per anni attendevano il suo ritorno aspettando qualche notizia che a volte non arrivava. Gertrude Caramatti lasciò il marito a Odessa e se ne tornò tra i suoi monti.
Lucio Lami nel suo romanzo «La donna dell'orso», che prende spunto da episodi reali, così ci parla di una di loro: «In effetti Adina non aveva mai manifestato entusiasmo per la vita degli «orsanti»: semplicemente aiutandone uno, suo zio, aveva scoperto di avere una inclinazione naturale per quella professione. Gli orsi, come dicevano i vecchi domatori, la sentivano. Parlava sempre a bassa voce, non usava maniere forti, e ripagava ogni obbedienza con qualche ghiottoneria. Soprattutto non cedeva: con implacabile mansuetudine costringeva gli orsi a fare quel che era previsto dal programma di lavoro».
Con l'andare degli anni gli «orsanti» cominciarono ad associarsi costituendo compagnie che poi avrebbero dato origine a circhi equestri. Una buona compagnia era composta da almeno quattro persone: il padrone che accudiva l'orso, un uomo che curava la scimmia, un suonatore di tamburo, un garzone o domestico addetto alla questua. Un carro trainato da un cavallo dava riparo a uomini e animali. Le compagnie più importanti avevano anche un cammello e cani ammaestrati con i loro addetti.
Il cammello con il suo servente rimaneva a circa un chilometro di distanza per poi intervenire facendo fare ai bambini un giro intorno alla piazza, effettuando così una seconda questua. Il circo più importane fu certamene quello di Antonio Bernabò, che iniziò la sua avventura all'età di otto anni con il fratello di poco più grande e ritornò dopo otto anni di assenza durante i quali era stato dato per morto. La madre lo riconobbe per una cicatrice che si era procurato da bambino. Ma ben presto riprese la sua vita errabonda andando in Crimea a comprare cammelli e anche nel ghiaccio dell’Artico a cercare l'orso bianco. I «capicompagnia» che possedevano sino a tre compagnie si davano appuntamento all’osteria di Bedonia ed erano facilmente riconoscibili: vestivano in «panno da marina» che chiamavano «blu Amburgo» dal luogo dove lo acquistavano e facevano mostra di grandi orologi appesi alla catena d'oro.
La loro presenza richiamava i curiosi che ascoltavano insaziabilmente i loro racconti. Antonio Bernabò, che lavorò ventidue anni in Turchia, ebbe il riconoscimento di Cavaliere dalla Corona Turca, oggi si direbbe un sapiente imprenditore. Paolo Bernabò nel 1843 diede in Grecia lo spettacolo ufficiale in occasione della dichiarazione di indipendenza. Giovanni Volpi lavorò per anni in Inghilterra prima di trasferirsi in America dove i suoi discendenti lasciarono il circo per le giostre e furono tra i fondatori del Luna Park di New York». La studiosa, a conclusione della sua ricerca, sottolinea come «questa realtà durò sino all'inizio della Prima Guerra Mondiale: molti tornarono poveri come quando avevano cominciato, altri si comprarono il podere, altri ancora scelsero la via delle Americhe, dimenticando gli animali».
Un altro studioso, Marco Porcella, realizzò un vero e proprio capolavoro con il libro (Sagep editore) che narra l’epopea dell’emigrazione girovaga nell’appennino ligure, apuano e parmense. Un volume che racconta la storia di genti di varie etnie che «sbarcavano il lunario» in tempi in cui l’accaparrarsi un piatto di minestra, un tozzo di pane ed un bicchiere di vino era una vera e propria impresa. Un proverbio vecchio almeno di cinque secoli recita: «con arte e con inganno si vive mezzo l’anno, con inganno e con arte si vive l’altra parte».
Grazie alla forma oracolare e al significato esteso che la lingua italiana attribuiva in passato alla parola arte, il proverbio può essere variamente interpretato. Gli storici del pauperismo , cita lo scrittore nella presentazione del volume, ritengono trattarsi di un proverbio furbesco, di una massima per vagabondi e, in realtà, essa si adatta assai bene a certe antiche emigrazioni contadine. Merciai, mendicanti, suonatori, orsanti, segretisti, birboni, cerretani, guidoni sono contadini che non riescono a campare tutto l’anno con l’agricoltura e la pastorizia e si mettono «alla via», s’inventano un altro mestiere, un’arte . Ma al girovago – forestiero di incerto domicilio, privo di referenze sociali, la sola arte talvolta non basta e gli conviene usare anche l’inganno. Ed ecco allora le gesta di malandrini, briganti e birbanti anche sulle strade del nostro appennino tra parmense e Lunigiana. Porcella, ci fa rivivere questi momenti storici ponendo l’accento su quanti, in carenza di risorse materiali, sfruttavano con cinismo vizi e virtù altrui, fede e superstizione, avarizia e prodigalità, dabbenaggine e tolleranza, raggirando i semplici, commuovendo i buoni, divertendo gli accorti con una girandola di invenzioni e di travestimenti che non cessavano mai di stupire. E, sempre per quanto attiene ai domatori di orsi, è stato creato nello splendido e magico borgo di Compiano il «Museo degli orsanti» che rievoca, attraverso immagini, quadri, manifesti, riproduzioni in cartapesta, strumenti musicali e tanti altri oggetti dell'epoca questo particolare fenomeno migratorio, che ha interessato molti abitanti del borgo di Compiano presumibilmente già a partire dal XVIII° secolo. «Il museo - come riporta una nota del Fai - situato nella chiesa sconsacrata di San Rocco, regala un'immagine onirica, da circo felliniano a chi vi entra. L'intento documentario, evidente nei pannelli con testi e fotografie che illustrano l'attività di questi «commedianti», si intreccia a quello teatrale, dove l'ambiente austero e mistico si fa scenario di un'inaspettata rappresentazione pagana.
L'immagine che si presenta al visitatore è sorprendente, quasi onirica: grandi orsi di cartapesta, insoliti strumenti musicali, costumi di scena, stampe d'epoca, dipinti, documenti e oggetti di vita quotidiana narrano la storia di uomini, partiti da Compiano, presumibilmente già nel XVIII° secolo, che hanno vissuto una vita avventurosa errando per terre lontane. Il Museo, nato nel 2001, è un patrimonio unico, incredibile testimonianza di un fenomeno popolare affascinante ma purtroppo quasi dimenticato». Le antiche tradizioni delle nostre genti non finiscono mai di stupire. Andrebbero maggiormente conosciute ma, soprattutto, meditate perché il futuro è nel passato che abbiamo, molte volte, colpevolmente dimenticato.
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