×
×
☰ MENU

C'era una volta

Quando i muratori parlavano in dialetto

Quando i muratori parlavano in dialetto

di Lorenzo Sartorio

15 Maggio 2023, 03:01

Case «green», «cappotti», facciate, pannelli solari, impalcature e bonus vari. Quante volte, anche di recente, abbiamo udito per tv o letto sui giornali queste parole associate a progetti, leggi, ambiente, ecologia e robe simili. Ed allora, vogliamo fare un salto indietro nel tempo mettendo a fuoco chi era ed è il protagonista dei vari cantieri, ossia, il muratore?

Al giorno d’oggi, con tutta quella frenesia che ci pervade, con la fretta che cadenza ogni momento della nostra giornata, con tutti gli accidenti di vario tipo che ci attendono dietro l’angolo, non si ha nemmeno più il tempo per osservare quello che ci circonda.

Quindi, anche le piccole cose si perdono nel turbinìo della quotidianità che si scarica dentro una scatoletta chiamata cellulare, nella tastiera del computer oppure nei nostri ormai martoriati nervi. Un tempo, quando le giornate erano più lunghe, ossia, si aveva un po’ più tempo per scrutare ed ascoltare sia il nostro animo che quello di chi ci stava vicino, certe immagini risaltavano in tutta la loro unicità e, a volte, nella loro straordinaria singolarità.

La vita era più semplice, se vogliamo più «ruspante». Intendiamoci, non certo facile, ma forse più serena.

Oggi, ad esempio, quando percorriamo le strade cittadine, specie quelle della periferia dove i campi cedono ogni giorno che passa al cemento e fioriscono fabbricati delle più svariate dimensioni, ciò che ci colpisce, a volte, è l’altezza di quelle gigantesche gru i cui pesanti bracci, silenziosamente, sollevano enormi putrelle di cemento ed altro materiale. Le case nascono come i funghi ed i tempi di esecuzione, grazie ai moderni mezzi, rispetto ad una volta, si sono notevolmente accorciati. Anche l’edilizia, dunque, si è ovviamente rapportata ai tempi.

Una volta i muratori, rigorosamente parmigiani o dell’immediato contado, riempivano il cantiere con la eco del loro dialetto nostrano o tutt’al più un po’ «arioso» al contrario di oggi dove, non solo il dialetto parmigiano è scomparso, ma nei cantieri si parlano addirittura lingue diverse. I muratori nostrani, giunti sul posto di lavoro, si cambiavano indossando gli abiti da fatica: camicia a quadrettoni, calzoni prevalentemente blu tenuti su da una corda che fungeva da cintura ed, in testa, non mancava mai una bustina (tipo marmittone) realizzata alla perfezione con la carta dei sacchi di cemento. Fino alla metà degli anni Cinquanta la polverosa «rottura» veniva calata a terra con rumorosissimi montacarichi per poi venir caricata su birocci trainati da cavalli che l’avrebbero scaricata nel greto di qualche torrente: per i cantieri di città, le zone di scarico preferite dai «casonér», erano i greti della Parma o dell’Enza. Un tragitto che i «cassonieri» percorrevano più volte al giorno fermandosi, come nella «via crucis», dinanzi a quelle tipiche osterie disseminate lungo il tragitto per potersi «s’ciarir» la gola dopo le operazioni di carico e scarico che sollevavano terribili polveroni. Quando negli anni Cinquanta-inizio anni Sessanta cominciarono a spuntare in periferia i primi cantieri dando inizio a quella ricostruzione che rosicchiò terra e campi alla campagna che circondava la città, la «rotùra», ossia: terra, calcinacci, mattoni di casupole che venivano demolite erano caricati su carri di legno trainati da un cavallo. Era l’epopea d’oro dei «casonér» che sarebbe durata ancora qualche anno per arrendersi al progresso dei camion e dei Tir. Già, i «casonér», che giravano tutta la città al rumore lento e cadenzato di un carretto dalle grandi ruote lignee trainato da un cavallo il cui zoccolìo era divenuto familiare in molte strade cittadine, specie in quelle del centro storico, in quanto l’eco si faceva ancor più forte e marcato. E. nella parte posteriore del cassone, una lanternina che penzolava come un dentino da latte.

Il «cassoniere», come andava a raccattare ghiaia e sabbia nel greto dei fiumi, fu pure un ottimo alleato dei muratori in tempi in cui camion e ribaltabili erano rarissimi e, quei pochi, erano impegnati nei grandi lavori. Quindi, le nostre strade periferiche, specie nella bella stagione, quando l’edilizia iniziava quel boom destinato a durare negli anni, erano frequentatissime dai «cassonieri» che facevano la spola più volte al giorno tra il luogo di scarico e il cantiere. Ciò che un tempo colpiva della vita di cantiere, oltre la tipica parlata parmigiana dei «muradór» e dei loro «garzón», erano le allegre zufolate ed i motivetti musicali che echeggiavano, tra la il picchiettìo di martelli e scalpelli, proposti, a volte, da ugole intonate, altre, da voci sgraziate come lo straziante gracchiare del montacarichi.

A proposito dei «garzón da muradór», negli anni ’50, erano parecchi i giovani che, terminate le elementari, intraprendevano il mestiere di muratore. Il tirocinio per diventare bravi professionisti durava 5 o 6 anni.

«Una carrucola ed una grossa fune- come ricorda Sergio Gabbi nei suo « Fascino della memoria»- erano gli unici strumenti che si utilizzavano per sollevare mattoni, sabbia e cemento». Ed il garzone, spingendo una pesante carriola o trasportando secchi sulle spalle, riforniva il muratore di questo materiale, non solo a terra, ma che su traballanti ponteggi posti a diversi metri di altezza. A mezzogiorno in punto, la sosta per il pranzo ed, allora, il cantiere si fermava per offrire la possibilità ai lavoratori di consumare il frugale pasto che ognuno si portava da casa.

In un posto ombreggiato i muratori si appollaiavano chi, su sacchi di cemento, chi su una montagnola di sabbia, chi su una pila di mattoni e lì, dopo essersi rinfrescati alla meglio con la canna, che, come un enorme biscione galleggiava dentro un barile incrostato di calce e cemento, estraevano dalle loro borse il cibo: gavette di minestrone, formaggio, pancetta e salame. Ma un companatico che non mancava quasi mai nel pasto del cantiere era il «culatello dei muratori»: la mortadella, il tutto annaffiato da mezzo vino (lambrusco) che dissetava senza «tagliare le gambe», in quanto il pomeriggio era molto lungo ed il lavoro altrettanto duro. Quando ormai la casa era arrivata al tetto, proprio sul cornicione o sulla parte più altra delle impalcature (che una volta erano di legno), veniva issato un grosso ramo di una pianta, sostituito nel tempo dalla bandiera tricolore. Solo le cooperative e le «case del popolo», negli anni Cinquanta, giunte al tetto, sfoggiavano una bandiera rosso fuoco con falce e martello.

Quel ramo e quella bandiera stavano a significare che ormai i lavori erano giunti al termine e l’impresario, per tradizione, era tenuto ad offrire una lauta cena alle maestranze. Mentre invece in campagna, quando un rustico era arrivato al tetto, oppure veniva riparata la copertura di un fienile, a lavoro ultimato, erano i proprietari che offrivano il pranzo ai muratori che solitamente si consumava nella corte.

Il menù, in occasione della copertura del tetto, era rigorosamente tradizionale: pastasciutta di taglia grossa (maccheroni o mezze maniche) condita con ragù di carne e, per secondo, frittura di coniglio, coniglio alla cacciatora, patate fritte e vino a volontà.

Alla sera, terminato il lavoro, i muratori di ieri, dopo una salutare e ristoratrice rinfrescata con l’acqua del barile, si cambiavano riponendo gli abiti da fatica e, tolta l’impolverata bustina di carta, salivano in sella alla loro bici legando borse o sacchi accanto alla canna facendo ritorno a casa con i capelli imbiancati di polvere e le ossa rotte dal lavoro.

Verso la metà dell’Ottocento, anche nella nostra città, le «Società dei Muratori» vennero sostituite dalle «Società di Mutuo Soccorso» e dalle «Cooperative di Beni e Lavoro».

Il loro stemma rappresentava due mani che si stringevano in segno di solidarietà ed il loro fine era quello di promuovere il miglioramento morale e materiale della classe operaia, esercitare opere di beneficienza a vantaggio dei soci e, in caso di morte di un socio, della sua famiglia. Altri tempi, altra gente!

© Riproduzione riservata

CRONACA DI PARMA

GUSTO

GOSSIP

ANIMALI